Vignetta di Alexey Iorsh
I ministri degli Esteri sono arrivati all’Assemblea Generale dell’Onu di New York nel momento in cui gli sforzi diplomatici per risolvere la crisi siriana erano finiti in un vicolo cieco. La Russia e la Cina hanno imposto per tre volte il veto su una risoluzione che avrebbe permesso un’ingerenza militare internazionale nei problemi interni della Siria. Il piano dell’inviato speciale Kofi Annan non è stato portato a termine, poiché l’opposizione non ha intrapreso un dialogo politico con il regime di Bashar al-Assad.
Sulla carta rimangono gli accordi di Ginevra, nei quali i membri permanenti dell’Onu hanno proposto di costruire in Siria un governo transitorio, di riesaminare la costituzione siriana sulla base di un dialogo realmente nazionale e di indurre elezioni pluripartitiche. Sergej Lavrov, ministro degli Esteri russo, ha rilevato a questo proposito: “I nostri partner hanno la tendenza a voler prevaricare gli accordi presi e a seguire la strada della pressione unilaterale, senza prendere in considerazione il fatto che in Siria gruppi di persone ben armate combattono uno contro l’altro”.
Che cosa fosse questa influenza unilaterale lo ha spiegato nel suo intervento il Segretario di Stato degli Stati Uniti Hillary Clinton, durante la seduta del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 27 settembre 2012. “Siamo favorevoli a cambiamenti politici in cui non partecipi Assad”, ha dichiarato. Il ritiro, l’allontanamento, l’uscita dalle scene di Assad è l’argomentazione più importante, e in sostanza l’unica, degli attacchi retorici che si sentono dall’Europa e dal Vicino Oriente nei confronti di Damasco.
C’è tuttavia un’altra logica. Assad non è certo il favorito di Mosca e Pechino. “Non stiamo dicendo che sia la persona in grado di governare la nuova Siria -, afferma Lavrov fuori dalle sale dell’Assemblea Generale. – E non cerchiamo chi lo possa sostituire. I nomi non sono importanti”. Lavrov aggiunge che “per noi è più importante che nel Paese vengano rispettati i diritti di tutti coloro che ci vivono, sunniti, sciiti, alawiti, druzi, cristiani, curdi, nonché la loro sicurezza e i diritti economici, politici e sociali”. “È di gran lunga più importante della caccia all’uomo”, ribadisce il capo del Ministero degli Esteri della Federazione russa.
In cambio Mosca suggerisce agli attori esterni di “scagliarsi” contro tutte le parti siriane più importanti, costringendole a porre fine alle violenze e a passare al dialogo politico. Anche gli altri membri del Brics condividono questa proposta. L’opposizione però ha il sostegno, almeno morale, dell’Occidente, mentre in Siria la guerra civile miete ogni giorno centinaia di vittime.
In tale contesto, dalla tribuna dell’Onu risuonano anche voci che invitano a ignorare l’organizzazione. Il 25 settembre 2012 l’emiro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Khalifa al Thani, ha affermato che i Paesi arabi farebbero bene a pensare a un intervento armato in Siria. Ha ricordato che esiste un precedente: nel 1976, su decisione della Lega Araba, erano state mandate delle truppe in Libano per porre fine alla guerra civile. “L’intervento fu efficace e utile”, ha sottolineato. Lo sceicco, nel tentativo di spiegare la ragione per cui i Paesi arabi dovrebbero prendere l’iniziativa in merito al problema siriano, ha fatto notare che i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu non riescono a raggiungere un’intesa comune in merito a tale questione.
Anche il Segretario di Stato sembrerebbe d’accordo con questa opinione: “Nel momento in cui assistiamo a un maggiore spargimento di sangue, il Consiglio di sicurezza non fa nulla. Invito ancora una volta a tentare di trovare un modo per raggiungere un accordo che metta fine alle violenze”, ha dichiarato. Il primo ministro britannico David Cameron ha espresso un giudizio ancora più severo nei confronti dell’attività del Consiglio di Sicurezza.
Ma c’è un particolare essenziale. Qui non importa che si critichino Mosca e Pechino. La cosa fondamentale è che gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia e la maggior parte dei Paesi arabi non sono pronti ad agire scavalcando l’Onu, senza il mandato di questo organo internazionale.
Gli Usa hanno già condotto un’operazione militare nel vicino Iraq senza il consenso del Consiglio di Sicurezza né di altri alleati strategici quali la Francia e la Germania. Agli occhi degli iracheni lo status dell’autoproclamata “Coalizione dei volenterosi” non ha aggiunto né legittimità, né autorità alle forzi statunitensi e britannico. La veloce vittoria militare si è tramutata in un fallimento politico e ha fatto perdere la faccia ai due Paesi.
È difficile non pensare che la tragica morte dell’ambasciatore americano in Libia non sia legata al travisamento dello spirito e della lettera della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla Libia, che avrebbe dovuto permettere soltanto l’introduzione di zone di interdizione al volo sul Paese, ma si è alla fine risolta in un intervento di fatto. Non si tratta però dell’unica, e probabilmente nemmeno dell’ultima, vittima dell’avventura libica.
Un consenso totale e azioni congiunte possono costituire un’alternativa: questi sono del resto i principi di funzionamento dell’Onu. Altri per ora non ce ne sono.
Pregustandosi probabilmente la battaglia di New York, alla vigilia della partenza per l’Assemblea generale dell’Onu, Lavrov aveva dichiarato: “Parafrasando la celebre frase di Churchill sulla democrazia, posso dire che l’Onu non è la forma perfetta, ma è la migliore che l’umanità abbia potuto pensare”.
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