Vignetta di Alexey Iorsh
Le relazioni della Russia con una serie di Paesi arabi si stanno complicando. È questa la conclusione a cui è giunto il guru della politica estera russa, l’accademico Evgeni Primakov, sullo sfondo delle attuali manovre diplomatiche intorno alla questione siriana. Del resto, neppure per gli Stati Uniti le cose sembrano andare meglio e le proteste degli ultimi giorni nel mondo islamico non lasciano dubbi.
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Evgeni Primakov: "La primavera araba e la Siria" |
I politologi russi e il Ministero degli Esteri russo vedono la “primavera araba” come l’esito di conflitti sociali radicati in Medio Oriente. I regimi autoritari che hanno sovvertito le monarchie di Egitto, Siria e Libia, durante la loro esistenza quasi quarantennale, non sono stati in grado di assicurare né il progresso, né la giustizia sociali, né di consentire la mobilità sociale. Da qui la rivolta di piazza Tahrir in Egitto, le manifestazioni di piazza a Tunisi e le proteste in Siria e Libia.
“Le vicende del Medio Oriente hanno un’origine socio-politica”, sottolinea il direttore del Dipartimento del Medio Oriente e dell'Africa Settentrionale, Sergei Vershinin.
I militari nazionalisti, alla guida di questi regimi, hanno convissuto senza problemi sia con Washington sia con Mosca. Il Cremlino aveva proibito tassativamente alla stampa sovietica di dare notizia dei massacri di comunisti in quei Paesi e ha cambiato la sua strategia d’influenza nella regione. Dal canto loro, gli Stati Uniti, in nome della stabilità politica nella più grande regione petrolifera del mondo, seguitano a fingere di non vedere come vengono violati i diritti umani.
Le organizzazioni politiche islamiche hanno costituito un’alternativa ai militari; un’alternativa reale come si è visto con la rivoluzione iraniana del 1978, quando gli ayatollah hanno spodestato il regime dello Scià. Già allora l’Islam politico aveva avuto modo di manifestare la sua vitalità. Ed è questa la ragione per cui i regimi militari del Medio Oriente si sono mostrati tanto intolleranti verso gli islamici.
La situazione ora è diametralmente opposta. In Egitto (la nazione più importante del mondo arabo), gli islamici moderati hanno ceduto il posto nelle prigioni all’ex presidente Hosni Mubarak. Il leader libico Muammar Gheddafi è stato vittima di una giustizia sommaria. Il presidente tunisino Ben Ali è stato condannato in contumacia all’ergastolo. Il presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, dopo essere scampato miracolosamente a un attentato, si è rifugiato negli Stati Uniti. In queste nazioni e in tutti gli altri stati dove sono presenti delle comunità islamiche – dall’Oceano Atlantico al Pacifico – hanno avuto luogo violente proteste anti-americane.
La Russia, a differenza del periodo sovietico, non è più disposta a farsi carico di una simile situazione come ai tempi del “gioco a somma zero”, dovendo gestire i propri interessi.
Nel febbraio 2012, poco prima delle elezioni, in un articolo dedicato alla politica estera, Vladimir Putin scriveva: “La Russia è sempre stata in buoni rapporti con gli esponenti dell’Islam moderato, che hanno tradizionalmente una visione del mondo affine a quella dei musulmani russi, e siamo pronti a intensificare i nostri contatti anche nella situazione attuale. Siamo interessati a incrementare le relazioni politiche ed economico-commerciali con tutti i Paesi arabi, turbati da un periodo di gravi sconvolgimenti interni”.
È questo l’approccio pragmatico che Mosca, dopo essersi liberata dalle briglie ideologiche e dalle ambizioni geopolitiche sovietiche, tende ora ad avere nei suoi rapporti col mondo esterno. Oltre a ciò, per un Paese come la Russia, dove le comunità musulmane sono radicate da secoli e si concentrano in aree cruciali come quelle del Volga e del Caucaso, intrattenere buoni rapporti col mondo islamico diventa sul piano della politica interna d’importanza fondamentale.
E questo approccio non può che avere delle ripercussioni. Già nel settembre 2011 Mohammed Mursi, futuro presidente egiziano, in un’intervista concessa all’agenzia Ria Novosti, aveva dichiarato che intendeva intensificare la cooperazione con la Federazione, dato il suo potenziale economico e il suo peso nello scacchiere internazionale. In realtà, fino ad ora i rapporti effettivi sono stati scarsi. Non c’è dubbio che i veri contorni della cooperazione della Federazione Russa con l’Egitto tenderanno a mostrarsi solo col tempo una volta che si sarà stabilizzata la situazione della politica interna di quel Paese.
In compenso, le relazioni con l’altro gruppo di stati mediorientali (le monarchie del Golfo Persico) si sono fatte nell’ultimo anno più problematiche.
Questi stati non hanno ancora superato la crisi provocata dal rovesciamento dei regimi monarchici e dai colpi di stato militari. La loro peculiarità storica di nazioni composte da un insieme di tribù beduine e il benessere economico costruito sul petrolio hanno consolidato quei sistemi politici assolutisti, benché scossi dal vento della “primavera araba”.
Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, che comprende gli stati di Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, è intervenuto per soffocare la rivoluzione in Bahrain e nello Yemen ha sostenuto con decisione Ali Abdallah Saleh contro gli insorti; ha preso posizione in difesa di Mubarak in Egitto e ha accolto Ben Ali dopo la fuga da Tunisi. Si tratta di una posizione estremamente conservatrice.
Con la Siria le cose sono andate in modo diverso. I Paesi del Golfo sostengono l’opposizione siriana e tutto lascia presumere che il loro non sia solo un appoggio di tipo morale e diplomatico, bensì anche materiale e soprattutto finanziario. Il fatto è che la Siria, o meglio il presidente Bashar Assad, appare come il principale alleato dell’Iran che non nasconde le sue mire di leadership nella regione. Il conflitto assume la forma di una contrapposizione tra i due rami principali dell’Islam, quello sunnita, che ha un ruolo dominante nei Paesi del Golfo, e quello sciita, che ha una posizione di supremazia in Iran, Siria e ora anche in Iraq.
Ecco perché i Paesi del Golfo, strumentalizzando il conflitto interno siriano, aspirerebbero a sottrarre la Siria all’influenza iraniana; obiettivo che può essere conseguito solo destituendo Assad. E su questo punto la Russia si scontra con l’Arabia Saudita, il Qatar e le altre monarchie sunnite e, soprattutto, sul terreno diplomatico con l’Onu, respingendo sistematicamente tutte le forme di pressione esterna sulla Siria contenute nelle risoluzioni delle Nazioni Unite.
Mosca è contraria in linea di principio a servirsi delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu come arma per rovesciare i governi, come già è accaduto in Libia ed è improbabile che vi siano fattori in grado di farle cambiare posizione. Ma in assenza di un mandato dell’Onu, non è realistico che qualcuno possa decidere di intervenire direttamente o adottare diverse e più blande misure come la “no fly zone”, o i corridoi di sicurezza. Il contrasto di interessi è evidente, ma la Russia è comunque disposta al dialogo.
In un’intervista televisiva all’inizio di settembre 2012 Putin ha detto: “Grazie a Dio, i nostri rapporti col mondo arabo sono ottimi, ma non vogliamo lasciarci trascinare nei conflitti interni delle nazioni islamiche, né essere coinvolti in decisioni che riguardano i rapporti tra sunniti e sciiti, o alawiti o altri popoli islamici. Nutriamo un identico rispetto per tutti i popoli. La nostra presa di posizione è dettata solo dal desiderio di creare condizioni favorevoli per un positivo evolvere della situazione da qui a molti anni a venire”.
Ma l’attuale situazione suscita timori. Dopo l’uccisione dell’Ambasciatore americano in Libia, Putin ha emesso un comunicato speciale: “Temiamo – ha sottolineato il presidente russo –, che l’intera regione possa precipitare nel caos; cosa che, peraltro, in Libia, pare già verificarsi”. In un tale contesto la collaborazione russo-americana nella regione diventa di stringente attualità.
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