Vignetta: Niyaz Karim
Sabato 15 settembre 2012 si è manifestata chiaramente la grande crisi nella quale è sprofondata l’opposizione russa.
Nove mesi fa, dopo gli straordinari meeting di protesta avvenuti in piazza Bolotnaja e sul Corso Sakharov, erano in tanti a dimostrare entusiasmo. In effetti, in quel periodo si respirava aria di rivoluzione: il potere iniziava a vacillare; si credeva di riuscire ad ottenere concessioni politiche; con l’opposizione si discuteva seriamente di andare a elezioni anticipate; si parlava delle dimissioni di Putin e di un governo di transizione.
Oggi, al termine di questi nove mesi, si può invece constatare che l’ondata di proteste, organizzata così come era stato fatto a partire da dicembre 2011, a livello politico non ha portato ad alcun risultato.
Putin continua ad occupare la propria poltrona. La questione delle nuove elezioni non è più stata affrontata alla Duma. E la stessa Duma è passata al contrattacco, privando i deputati di opposizione del proprio mandato. Da dicembre 2011, il movimento di proteste a Mosca ha raggiunto livelli bassissimi. Si potrebbe quasi dire che in alcune regioni è quasi morto. Provate a guardare il misero numero di manifestanti a San Pietroburgo e a Ekaterinburg. Come è potuto accadere?
In linea di massima, che il movimento di protesta potesse prendere questa piega, era chiaro già all’indomani del meeting in Corso Sakharov. Non ci si era resi conto che l’esperienza nel parlare con la gente era troppo poca, e che alcune figure erano state idealizzate sullo sfondo di quanto appariva su Internet o su altri mezzi di informazione indipendenti. Anch’io, cinque anni fa, ero ingenuamente convinto che tutti i politici che agivano contro Putin, fossero a priori persone di cui ci si poteva fidare. Il problema è che in Russia, negli anni che hanno fatto seguito alla repressione politica, si è creato un movimento di opposizione professionista, del tutto incapace di farsi carico dei doveri politici su larga scala.
Il fatto che Putin sia riuscito a relegare questo movimento in un piccolo ghetto, legato solamente ad alcuni blog e a piccoli mezzi di informazione indipendenti, ha giocato un brutto scherzo alla corrente che si andava formando. Si è persa la capacità di dialogare con la gente, e di agire come politici di un certo livello.
Il risultato è stato che per due volte, alle elezioni presidenziali del 2008 e a quelle del 2012, l’opposizione non è riuscita a presentare un proprio candidato. Ci aveva provato il partito “Altra Russia” con Garry Kasparov. Inutilmente.
Allo stesso modo nel 2012 tutti si aspettavano un colpo di scena con Alexei Navalny. Un colpo di scena che però non ci fu. Egli in effetti dichiarò: “In questo Paese non esistono elezioni”.
Come risultato, l’andamento politico è andato avanti per conto proprio, così come l’attività degli oppositori professionisti, che hanno trasformato qualsiasi cosa in un pretesto per scendere in piazza. Sabato 15 settembre 2012 dal palco di Corso Sakharov, questa strategia poco furba è stata ribadita da Alexei Navalny: “Dobbiamo partecipare ai meeting come se si trattasse di lavoro”.
Ma già a marzo 2012 il volume delle proteste ha iniziato a ridimensionarsi notevolmente. E solo le repressioni del governo hanno permesso di mantenere alto il livello dei movimenti di maggio e giugno 2012. Ma non ci si è domandato, dove si sarebbe andati a finire. I leader della protesta non hanno fatto altro che ripetere come un mantra che, “se per le strade fossero scesi milioni di persone, allora Putin sarebbe stato costretto ad andarsene”. Ma la rivoluzione è una cosa seria, che ha bisogno di organizzazione e disciplina.
Cosa succederà adesso? Io ho immaginato qualcuno dal palco che dice: beh ragazzi, scusateci, in realtà non abbiamo concluso niente, queste proteste sono finite in un vicolo cielo. Ammettiamo di essere colpevoli. Ma credeteci, ancora una volta. Adesso abbiamo veramente un piano? Nulla di simile.
“Dobbiamo partecipare ai meeting come se si trattasse di lavoro”, è stato detto.
In realtà, ad Alexei Navalny io ricorderei la celebre frase pronunciata dal presidente Kennedy: quello che importa è cosa puoi fare per il tuo Paese. E non cosa il Paese può fare per te. Una frase che si adatta perfettamente al rapporto che c’è tra i “leader delle proteste” e le migliaia di persone scese in piazza: questi politici dovrebbero sudare sette camicie per mantenere le aspettative della gente comune. E non il contrario.
Vorrei ricordare che così non si può andare avanti. Per molti si tratta solo di un gioco. Se veramente si vuole un cambiamento in questo Paese, non serve aspettare l’aiuto di un gruppo di oppositori professionisti, inutili e senza senso.
Cosa bisogna fare? Di questo ne avevamo già parlato. È necessario capire i propri errori, ovvero l’assenza di una forza politica di opposizione nazionale, la bassa popolarità tra la nazione e i brutti rapporti con essa. E mettersi a lavorare per le elezioni. Nei prossimi due anni, l’opposizione ha la possibilità di ottenere una seria rappresentanza nelle amministrazioni di molte importanti regioni. In previsione della “battaglia per Mosca” prevista per il 2014-2015. Chi lavorerà meglio, sarà colui che potrà vincere.
I politici devono capire che tutto ciò deve venire al primo posto. Non è possibile far pesare questo lavoro sulle spalle dei manifestanti. La gente non dimentica. E non perdona.
Vladimir Milov è il leader del movimento “Elezioni democratiche”, capo dell’Istituto di Politica Energetica
L'articolo originale è stato pubblicato su gazeta.ru
Tutti i diritti riservati da Rossiyskaya Gazeta
Iscriviti
alla nostra newsletter!
Ricevi il meglio delle nostre storie ogni settimana direttamente sulla tua email