Vignetta di Alexey Iorsh
Se inizialmente la crisi in Siria era sembrata una contrapposizione tra il regime autoritario di Bashar Assad e l'opposizione che voleva la democratizzazione del paese, ora l'enfasi si sta spostando su un altro piano. Ormai si tratta di vedere se nel paese sopravvivrà un governo laico o se il frutto di questa crisi sarà la nascita nel Vicino Oriente dell'ennesimo stato fondato sull'islamismo politico.
In verità, questo cambio di scenario era prevedibile fin dall'inizio della crisi siriana. L'opposizione esterna, riunita nel Consiglio di Salvezza Nazionale (Csn) della Siria, includeva l'opposizione politica contro Damasco. La sua immagine politica era caratterizzata soprattutto dalla figura dell'ex leader Burhan Ghalioun, professore alla Sorbonne e personaggio-simbolo dell'élite intellettuale siriana. Anche l'opposizione politica interna era rappresentata piuttosto da politici che non da rivoluzionari.
Eppure, la lotta armata contro il regime non è stata condotta dai partiti o da raggruppamenti politici, ma dalle truppe del Libero Esercito Siriano (Les), che non possiedono né un comando unitario, né saldi legami con le strutture politiche dell'opposizione, prima fra tutte il Csn. In sostanza, Les è una denominazione generica che raccoglie vari gruppi di rivoluzionari armati, adottata per semplificare ai giornalisti il compito di descrivere gli avvenimenti in Siria.
Ma questa è solo la metà del problema. L'equilibrio delle forze all'interno dell'opposizione armata si sta gradualmente spostando in favore dei jihadisti.
Già all'inizio di quest'anno il governo degli Usa aveva espresso il timore che nell'opposizione siriana potessero trovarsi dei membri di Al Qaeda.
Lo aveva comunicato al comitato per le forze armate del Senato il capo dell'intelligence statunitense James Clapper. Clapper aveva dichiarato che era stata recentemente scoperta la “presenza di estremisti tra le file di alcuni gruppi dell'opposizione in Siria”. “Riteniamo che una cella di Al Qaeda già attiva in Iraq stia cominciando a esercitare sempre più la sua attività anche in Siria”; queste le parole di Clapper.
La situazione si sta deteriorando. Il capo del Pentagono Leon Panetta ha lasciato intendere che gli Usa ritengono che la rete terroristica internazionale di Al Qaeda stia estendendo il proprio raggio di azione anche in Siria. “Dobbiamo fare tutto il possibile per capire che tipo di influenza stiano cercando di esercitare sugli avvenimenti in Siria”, ha dichiarato Panetta durante un incontro con la stampa.
Ora che sta per concludersi la battaglia per il controllo di Aleppo, si può parlare di un netto rafforzamento della componente islamica nella resistenza come di un fatto compiuto. Come si evince dalle pubblicazioni dell'Istituto del Vicino Oriente di Mosca, i jihadisti sono attivi soprattutto ad Aleppo - ve ne sono circa 5.000 - e nella zona di Idlib, e questa forza reale viene già riconosciuta, a malincuore, al comando dell'“opposizione laica”. Il numero dei jihadisti è ormai paragonabile a quello delle truppe del Les. Inoltre, in Siria “a sostenere la rivoluzione” si sono precipitati alcuni volontari dalle convinzioni ideologiche assai discutibili per una società civile, come il figlio, morto di recente nella battaglia per la presa di Aleppo, del famoso guerriero ceceno Gelaev; o alcune figure dell'entourage di al-Zawahiri.
I principali sponsor della “rivoluzione siriana” e una parte significativa dei comandanti militari hanno scelto la strada di un'escalation della lotta armata contro il regime, considerandola come l'unica possibilità di abbatterlo.
In questo caso però in primo piano non vi sarà più la democratizzazione del regime di Bashar Assad, bensì un cambio della gerarchia statale, per cui al posto di un regime autoritario fondato sull'esercito e sui servizi segreti salirà al potere un islamismo politicizzato legato alle monarchie sunnite del Golfo Persico. Se era ancora immaginabile che Assad potesse sedersi al tavolo delle trattative con l'opposizione politica, cosa a cui cercava di spingerlo Kofi Annan, una trattativa tra i vertici alaviti della Siria e i jihadisti sunniti è assolutamente impossibile. Non a caso domenica scorsa il capo del Ministero degli Esteri siriano Walid Muallem ha annunciato: “Il progetto delle trattative tra il governo siriano e l'opposizione sarà attuato dopo la liberazione del territorio siriano dai gruppi armati”.
Eppure è chiaro che le forze regolari non potranno sconfiggere gli insorti che combattono con metodi partigiani. D'altro canto anche gli insorti, non essendo dotati di un vero armamento, non possono vincere senza il sostegno militare dell'Occidente.
Di questo dilemma sono ben coscienti a Washington e nelle capitali europee, dove si fa tanto parlare di “zone interdette al volo” e “corridoi umanitari”, ma non ci si affretta a mettere in moto la macchina militare. Così facendo potrebbero ottenere l'ennesimo stato islamico nel Vicino Oriente. Non è la prospettiva migliore, visto che a raccogliere i frutti della primavera araba si stanno già muovendo nella stessa direzione l'Egitto e la Tunisia.
L'opinione è stata pubblicata sul numero di "Russia Oggi" del 6 settembre 2012
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