La lezione dell'11 settembre

Le Torri Gemelle, colpite dai terroristi l'11 settembre 2001 (Credit: Niyaz Karim)

Le Torri Gemelle, colpite dai terroristi l'11 settembre 2001 (Credit: Niyaz Karim)

In occasione dell'anniversario dell'attacco alle Torri Gemelle, il commentatore politico Eugene Ivanov riflette sulle conseguenze di quanto accaduto nel 2001

Dopo l’11 settembre non solo è profondamente cambiata la storia degli Stati Uniti, ma l’intero tessuto sociale americano ha subito un grosso mutamento.

Il resto del mondo, cosciente della gravità di un attacco terroristico che ha portato alla morte di 3mila persone e causato 100 miliardi di dollari di danni materiali e altre perdite, ha definito l’attacco alle Torri Gemelle “un atto criminale”. Secondo gli americani, comunque, ciò che accadde quel giorno, è stato molto più grave di quanto già non fosse. È stato percepito infatti come un attacco ai valori e agli ideali americani, un’aggressione al cuore stesso “dell’American way of life”.

Gli americani infatti non si sono limitati a perseguire i criminali. Ma si sono lanciati al contrattacco, dichiarando guerra a questo nuovo nemico mortale.

L’allora presidente Usa George Bush ha fatto leva su questo sentimento per dare un giro di vite alla sua già compromessa presidenza.

L’invasione in Afghanistan del 7 ottobre 2001 è infatti stata accolta con un tasso di approvazione impressionante: pari all’88 per cento. La reazione del mondo intero si è rivelata piuttosto contrastante, anche se i principali alleati degli Usa, ovvero Regno Unito, Canada, Francia e Germania hanno appoggiato l’attacco militare.

Ad ogni modo, il rovesciamento dei talebani e l’espulsione di Al Qaeda dal Paese, così come la cattura e l’esecuzione di Bin Laden, non era esattamente ciò che Bush aveva in mente. Lui aveva gettato gli occhi su un obiettivo ben più grande: ridisegnare il mondo sul gusto di Washington. E il Medio Oriente si è rivelato il punto di partenza. Il nemico personale di Bush, il presidente iracheno Saddam Hussein, è stato il primo obiettivo naturale.

L’invasione in Iraq nel marzo 2003 ha distrutto la fragile unità nazionale che si era creata dopo l’11 settembre. Poco più della metà della popolazione americana all’inizio aveva appoggiato l’azione militare in Iraq. Un’adesione però venuta ben presto a mancare: nel giugno 2005 il 60 per cento della popolazione americana ha dichiarato che la guerra non doveva essere la soluzione principale. Senza dimenticare che l’attacco ha pesato sui rapporti con la Francia, la Germania e la Russia. Anche se i legami con la Francia e la Germania sono stati ben presto ricuciti, i dissapori più gravi restano ancora adesso tra Washington e Mosca.

L’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle offre ancora una volta all’America la possibilità di chiedersi quali vantaggi ha tratto, in materia di sicurezza nazionale, dopo quelle due guerre durate più della Guerra Civile e le due Guerre Mondiali (tenendo conto che quella in Afghanistan è ancora adesso in corso), e che hanno regalato al Paese 6mila morti e fatto spendere oltre 1.300 miliardi di dollari.

Questo è anche il momento di chiederci se ci sono degli insegnamenti da trarne dopo quanto accaduto a seguito dell’11 settembre. Si potrebbe pensare che il caos totale che ha fatto seguito alla fine delle grandi operazioni militari in Afghanistan e in Iraq garantisca che nessuna potenza mondiale sia in grado di condurre una guerra, senza prima pianificare la ricostruzione del dopo-guerra. Ma non è così.

Nel 2011 la Nato ha sferrato un attacco militare contro le autorità in Libia per spodestare Gheddafi. Ne è risultato una frammentazione del Paese, con conseguenze geopolitiche a lungo termine impossibili da prevedere.

Gli stessi uomini che qualche anno fa ci avevano assicurato che il rovesciamento di Saddam avrebbe portato un periodo di “pace e stabilità”, chiedono ora un intervento militare in Siria dicendo che, per quanto assurdo possa sembrare, è l’unico intervento possibile per prevenire la guerra civile nel Paese.

Quanto è accaduto dopo l’11 settembre 2011 vale ancora oggi, sia per gli Stati Uniti, sia per gli altri Paesi. Siamo abbastanza intelligenti per imparare l’importante lezione di allora?

Eugene Ivanov è un commentatore politico, vive in Massachusetts e scrive il blog The Ivanov Report

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