La Siria in un vicolo cieco

Vignetta di Niyaz Karim

Vignetta di Niyaz Karim

Damasco si trova alle strette dal punto di vista diplomatico e militare, mentre la missione degli osservatori dell'Onu lascia il Paese

La missione degli osservatori militari dell’Onu ha concluso il suo lavoro il 19 agosto 2012; al suo posto inizierà a operare un ufficio di collegamento dell’organizzazione. Questa è la decisione presa il 16 agosto 2012 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nonostante il parere contrario della Russia, della Cina e del Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon. Al vicolo cieco dello scontro militare in Siria si aggiunge ora anche quello diplomatico.

Nei compiti della missione degli osservatori Onu, iniziata a maggio 2012, rientrava il monitoraggio della cessazione del fuoco, oltre alla raccolta di informazioni sulla situazione in Siria, dove lo scontro civile sta crescendo. In sostanza quelle relazioni erano l’unica fonte informativa imparziale, sulla cui base si potevano cercare i punti di contatto per la regolamentazione della crisi siriaca. Ora non c’è più. Lo stop alla missione è la logica conseguenza delle dimissioni di inizio agosto 2012 del rappresentante speciale dell’Onu Kofi Annan, per iniziativa del quale era stata organizzata la missione. Il veterano promotore di pace ha parlato di mancanza di appoggio del suo progetto di regolamentazione pacifica, senza d’altro canto fare i nomi di coloro a cui era indirizzato il suo rimprovero. Adesso anche Annan non c’è più.

La situazione del Paese è chiaramente a un punto morto. Le eterogenee file dell’opposizione non sono nelle condizioni di sconfiggere le truppe regolari del regime siriaco. Non possono nemmeno formare un enclave ribelle, come hanno dimostrato la battaglia persa ad Aleppo – la capitale economica della Siria – e l’insuccesso dell’offensiva a Damasco all’inizio di agosto. Senza armi pesanti le operazioni su vasta scala contro le truppe governative saranno condannate anche in futuro. Tuttavia l’Occidente non ha fretta di offrire aiuti militari.

La ragione è evidente. Come è stato riportato dalla France Press, Abu Ammar, il comandante ribelle della città di Aleppo, ha dichiarato: “Non vogliamo Al Qaeda qui, ma se nessuno ci aiuterà ci uniremo a loro”. Assomiglia a un ricatto, ma nessuno vuole armare Al Qaeda, specialmente in un Paese dove ci sono armi chimiche.

In tali condizioni l’Esercito siriano libero – la principale forza militare di opposizione – è costretto a passare alle azioni dei partigiani. In questo caso le truppe governative hanno scarse possibilità di successo. Il conflitto che si protrae già da un anno e mezzo non sarebbe potuto continuare così a lungo senza l’appoggio estero all’opposizione. Si fanno i nomi della Turchia, dell’Arabia Saudita e del Qatar.

È ormai nota la decisione del presidente degli Stati Uniti Barack Obama di utilizzare la Cia per il coordinamento delle operazioni in aiuto ai ribelli. Si parla però di armamenti leggeri o di dispositivi non letali. Il conflitto cesserà o esploderà con rinnovata forza, moltiplicando le vittime e destabilizzando la situazione di tutto il Vicino oriente.

A fronte di tutto ciò Stati Uniti e Paesi occidentali non hanno chiaramente intenzione di regolarizzare la crisi con l’aiuto della forza. Né la Gran Bretagna né la Francia possono permettersi di ripetere lo scenario libico a causa della sconsolante situazione economica in Europa. Gli Stati Uniti, senza i quali l’ingerenza militare non può sussistere, anche soltanto per motivi puramente tecnici, difficilmente inizieranno un’altra guerra nel Vicino oriente, nel ricordo delle sconfitte politiche di Iraq e Afghanistan. E il periodo di campagna preelettorale negli Usa non è il momento migliore per le offensive militari.

Pertanto rimane soltanto una cosa: ottenere le dimissioni di Al-Bashar Assad, cosa che in sostanza sta avvenendo. I mezzi per farlo sono la pressione diplomatica, le sanzioni economiche, le campagne di propaganda, i sostegni per i transfughi, gli attentati terroristici. Il metodo migliore sarebbe la minaccia di un’ingerenza militare esterna sancita dall’Onu. Tuttavia nel Consiglio di Sicurezza la Russia e la Cina hanno messo per ben tre volte il veto a questa ipotesi, protestando contro l’utilizzo dei meccanismi dell’Onu per l’alternanza dei regimi. Oggettivamente è un sostegno al Presidente siriaco che però non lo esimia dalla necessità alla fin fine di entrare in trattativa con i ribelli.

Per ora Mosca si è offerta di organizzare all’Onu una riunione dei consoli nella quale ha intenzione di rendere nota la proposta di fissare per le parti in conflitto un termine per la cessazione del fuoco e l’inizio di trattative pacifiche.

Allo stesso tempo Mosca si impegnerà a esercitare la sua influenza sul governo siriano. È in questa cornice che si deve comprendere la visita della prossima settimana nella capitale russa del vicepremier della Siria Qadri Jamil e del ministro per la riconciliazione nazionale Ali Haidar.

Nel frattempo, la Russia ha chiesto più di una volta ai Paesi dell’Occidente di fare pressioni sull’opposizione siriana allo scopo di far cessare il fuoco e passare al dialogo politico. Evidentemente il Cremlino condivide il pensiero di Kofi Annan che, in un articolo pubblicato sul Financial Times dopo le sue dimissioni, ha sottolineato: “La Siria deve ancora essere salvata dalla catastrofe peggiore. Questo però richiede da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – inclusi i Presidenti Vladimir Putin e Barack Obama – coraggio e senso di leadership”.

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