La Russia che verrà nel 2018

Vignetta di Niyaz Karim

Vignetta di Niyaz Karim

Fedor Lukjanov ha provato a immaginarsi fra sei anni, quando un nuovo Presidente assumerà l’incarico di guidare la Federazione. La visione di quel che ci aspetta a livello internazionale

Lunedì, 7 maggio 2018, a circa un mese dall’inizio dei Mondiali di calcio, si celebrerà la cerimonia di insediamento del nuovo Presidente della Russia al Cremlino. Il sessantacinquenne Vladimir Putin, ancora forte e in salute, non è cambiato molto dal giorno in cui, circa venti anni fa, salì al potere. Egli passerà le redini al suo successore, questa volta lasciando definitivamente l’arena politica. Nell’intervista, durata due ore, con le quattro principali reti nazionali, andata in onda alla vigilia della cerimonia, Putin ha tirato le somme della sua permanenza nell’Olimpo politico del Paese.

Putin aveva deciso di tornare senza esitazioni al potere nel 2012. L’argomento decisivo fu la minaccia di una nuova crisi globale, i cui segnali si profilavano già da tempo all’orizzonte, accompagnata dal desiderio di reggere con le proprie mani il timone del suo Paese quando questa tempesta si sarebbe abbattuta. All’inizio, non fu facile. Persino i suoi più stretti collaboratori se la presero per il modo in cui gestì il suo partito e nemmeno le elezioni in seno alla Duma di Stato si svolsero nel migliore dei modi. Si calcò un po’ troppo la mano forse nel tentativo di fornire gli strumenti necessari a operazioni future. Questi fattori, nel loro insieme, provocarono un’ondata di malcontento del tutto inaspettata, a cui Putin non era più abituato. L’opposizione non fu in grado però di sfruttare questo risveglio improvviso della società civile e allora il potere ne approfittò per fare un salto verso l’auto-rinnovamento. Facce nuove al governo, grandi progetti per una reale modernizzazione del Paese, privatizzazioni, investimenti nel settore dell’innovazione e riforme strutturali, che erano già state iniziate nel 2000 ma non erano mai state portate a compimento… 

La Russia non riuscì a prepararsi in modo adeguato agli shock che sarebbero di lì a poco seguiti. Nel 2013, scoppiò una nuova crisi mondiale, causata dal default del Portogallo, seguito a ruota dalla Spagna. Contemporaneamente, i prezzi del petrolio scatenarono una guerra in Iran. L’attacco di Israele agli impianti nucleari iraniani costrinse gli Stati Uniti a intervenire, nonostante l’opposizione del Presidente Barack Obama, appena rieletto. L’intera regione dal Mar Caspio all’Africa del Sud, ricca di giacimenti petroliferi, precipitò nel caos più totale. La crisi economica non tardò a raggiungere anche la Cina, vi fu un calo della domanda di materie prime che fece colare a picco i ricavi dell’economia russa.

Putin si rese conto in fretta che la crisi aveva aperto nuove opportunità per una riforma profonda del Paese e un suo successivo rilancio sulla scena internazionale. Il Presidente russo si rivolse all’Europa offrendole una collaborazione più stretta. Nei primi anni del 2000, l’Unione Europea credeva ancora nel principio fondamentale della propria supremazia e non condivideva l’idea di uno “scambio di beni”, ovvero l’unione di potenziali diversi al fine di raggiungere un vantaggio reciproco, che in questo caso era la combinazione dei mezzi tecnologici e sociali europei con le materie prime e le risorse finanziarie russe. Tuttavia, verso la metà del 2010, per il bene delle economie europee e del progetto di integrazione, i principali Paesi europei si sedettero al tavolo delle trattative a Mosca. Si scoprì che il problema di un regime senza visti, discusso infinite volte in passato, si poteva risolvere in realtà nel giro di due mesi, e che le difficoltà insuperabili del mercato degli investimenti in Russia e l’immissione di capitale russo in Europa non era che un problema apparente. Nel 2015, quando entrò in funzione l’Unione Eurasiatica, essa non fu creata in opposizione all’Unione Europea, bensì quale naturale continuazione di quest’ultima.

Con la Cina fu tutto più complicato. La possibilità che la Russia potesse un giorno dipendere dalla vicina Cina, aveva da sempre preoccupato Putin, sebbene egli non avesse mai perso l’occasione di utilizzare la carta della Cina per ricordare all’Occidente che la Russia aveva anche dei partner alternativi. La crisi, che coincise con l’aumento delle tensioni all’interno della leadership cinese, aprì una strada inaspettata. Pechino era in crisi a causa di una serie di fattori interni ed esterni, allora Mosca decise di intervenire offrendogli un ingente programma di cooperazione economica e di recupero della Siberia e dell’Estremo Oriente. La prospettiva di un ravvicinamento russo-cinese allarmò Washington e Tokyo, i quali finalmente compresero la necessità di riconoscere il fattore russo nel complesso contesto asiatico. Già nel 2011-2012 , gli strateghi statunitensi impegnati a rafforzare la propria posizione nella regione del Pacifico, non prestarono attenzione alla Russia. Alcuni anni più tardi, la situazione cambiò, e iniziò una vera corsa per aggiudicarsi il sostegno di Mosca. La questione territoriale con il Giappone rimase comunque irrisolta e le divergenze con gli Stati Uniti continuarono.

Ma, mentre nella regione euro-atlantica, la Russia e gli Stati Uniti non riuscirono in nessun modo a superare l’inerzia del conflitto passato, per quanto assurdo fosse stato nel XXI secolo, nell’Oceano Pacifico non si ebbero grossi problemi. Con il centro dell’attenzione spostato su quel lato del globo, le relazioni russo-americane si fecero più attuali e sensate. Questo avvenne anche perché, verso la metà del 2010, Washington aveva iniziato a riconoscere la necessità di rivedere seriamente la propria strategia globale a causa delle sue risorse limitate. Questo orientamento non cambiò nemmeno quando alle elezioni del 2016 vinse un conservatore convinto: l’America si occupò finalmente di risolvere i suoi problemi interni, invece di cercare di convincere il mondo intero ad adattarsi alle sue esigenze. Il caos in Medio Oriente, dimostrò quanto fossero inutili i tentativi di gestire la crisi, ribadendo invece la necessità di rivedere la strategia utilizzata finora.

Così, Vladimir Putin, lascia in eredità al suo successore una Russia saldamente piantata sui suoi piedi. Il suo giovane e ambizioso successore era sceso nell’arena politica nel maggio del 2010, quando Putin aveva annunciato un radicale rinnovamento dei ministeri, e nel 2017 aveva occupato la carica di primo ministro. Putin ha deciso di affidargli il Paese non solo perché lo porti a superare il forte impatto della prossima crisi, ma anche perché lo conduca verso un’integrazione stabile nelle principali sfere economiche e politiche, europee, asiatiche e americane. La Russia è ancora gravata da una discreta quantità di problemi, ma la ricerca della soluzione a questi problemi risiede nel futuro e non nel passato. E Putin è convinto che il Paese sia già sulla strada giusta. Ciò significa che potrà tranquillamente affidare le redini del potere al suo nuovo successore e dedicarsi al suo hobby preferito, ovvero fare il tifo per i nostri. Non invano nel lontano 2010 il presidente della squadra di calcio russa, Sergej Fursenko, aveva promesso che la squadra russa avrebbe vinto i Mondiali… 

Fedor Lukjanov è caporedattore della rivista “Rossija v globalnoj politike” (La Russia nella politica globale)

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