Foto: AP
Nel suo ultimo discorso alla Nazione il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko ha detto che a Minsk non ci saranno rivoluzioni. Nessuno vuole spargimenti di sangue come ci sono stati in altre repubbliche ex sovietiche come il Kirghizistan, o peggio ancora come in Libia o in Siria. E ci mancherebbe.
Il capo di Stato ha fatto riferimento anche alle accuse, che gli sono state rivolte dalle istituzioni internazionali e dalle organizzazioni che si occupano di informazione, di voler tenere sotto controllo i media e soprattutto Internet, mezzo che proprio nelle rivolte africane e non solo (la prima Twitter revolution è stata quella moldava) ha avuto una funzione importante, anche se non certo decisiva.
Lukashenko, che ha definito quella odierna “l’era della comunicazione e dei media”, ha tentato staccarsi di dosso l’etichetta di nemico della Rete, dicendo testualmente che “tutte le misure restrittive in vigore in Bielorussia per quanto riguarda Internet sono copiate dagli standard americani ed europei. Siamo preoccupati per gli attacchi degli hacker e le frodi via Web”.
Il riferimento è alla legge entrata in vigore all’inizio del 2012 che obbliga le aziende e gli imprenditori che operano nel Paese a usare domini bielorussi e non esteri. Il presidente ha però anche aggiunto che la Bielorussia è minacciata attraverso la Rete ed è stata data “una risposta adeguata alle attività sovversive nelle reti sociali e non è stato permesso di sviluppare la rivoluzione, come nei Paesi arabi e in parte in Russia e Kazakhstan”.
Insomma, anche se Lukashenko ha affermato di non aver bloccato nulla, qualcosa alla fine dei conti è stato fatto (come obbligare gli utenti nei cybercafé a registrarsi e prevedere multe per i provider e i gestori disobbedienti che lasceranno cioè connettere i loro clienti a siti esteri).
E allora hanno forse ragione coloro che individuano nell’ultimo dittatore d’Europa uno dei predatori della libertà di stampa nel mondo. Secondo Reporters Without Borders, organizzazione internazionale che si batte per il giornalismo libero, il presidente bielorusso è in buona compagnia, con diversi leader delle repubbliche ex sovietiche, dall’uzbeko Islam Karimov al turkmeno Gurbanguly Berdymukhammedov.
Anche il CPJ (Committee to Protect Journalists) ha classificato la Bielorussia nella sua ricerca intitolata“Attacks on the Press in 2011” come uno dei Paesi dove la libertà di stampa è a maggior rischio. E medesimo è il giudizio di Freedom House che nel rapporto “Freedom of the Press 2012” pone Minsk nelle ultimissime posizioni.
Abbagli, secondo il presidente, anche se stando a un recente sondaggio di Gallup, solo il 23 per cento della popolazione bielorussa ritiene che non ci siano problemi nell’ottenere e diffondere informazioni. La verità è quindi questa: Lukashenko deve rivedere il suo concetto di giornalismo libero.
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