Foto: AP
L’11 marzo 2011 la costa orientale dell’arcipelago nipponico fu colpita dal più potente terremoto della storia del Giappone. Di per sé, il sisma, assieme al forte maremoto che ne scaturì, non scosse più di tanto le fondamenta del Paese. Terremoti, tifoni e tsunami, infatti, fanno parte della cultura, economia, storia e vita quotidiana del Giappone.
Il Paese si trovò dinanzi a una realtà del tutto nuova, invece, quando l’inarrestabile onda dello tsunami raggiunse e travolse la centrale nucleare di Fukushima, causando la fusione dei noccioli di tre dei reattori dell’impianto. L’incidente fu classificato dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) al grado 7, il massimo grado della scala. Le quantità di radionuclidi dispersi nell’atmosfera, nel suolo e nelle acque costiere furono pari a un 20 per cento di quelle rilevate nell’incidente di Chernobyl, nel 1986, e aumentano a ogni nuova rilevazione.
La tragedia di Fukushima ha mandato inevitabilmente in crisi l’intera industria del nucleare. Le centrali atomiche rappresentavano il 30 per cento dell’energia totale prodotta in Giappone. Al giorno d’oggi, solo due dei cinquantaquattro reattori sono ancora operativi. A partire da aprile, anche gli impianti tuttora in funzione potrebbero venire chiusi e non è possibile prevedere quando saranno riaperti, vista la resistenza delle comunità locali nei confronti dell’energia nucleare.
D’altra parte, anche il problema delle importazioni di energia è peggiorato. Sotto le pressioni degli Stati Uniti, Tokyo ha deciso di appoggiare, di fatto, le sanzioni contro l’Iran e di interrompere le importazioni di petrolio dal Paese persiano, che rappresentano il 10 per cento delle importazioni totali di petrolio del Giappone. In generale, la situazione politica in Medio Oriente è piuttosto instabile: il conflitto latente tra Iran e Arabia Saudita si fa sempre più acuto, vi sono sintomi di destabilizzazione in Iraq e Libia, mentre la presenza statunitense nella regione è sempre più messa in dubbio. Cresce, nel frattempo, la sete di petrolio di Cina, India e Corea del Sud.
Una cooperazione con la Russia potrebbe essere un’ottima soluzione per superare la crisi. “Credo che Giappone e Russia godano di buone prospettive di cooperazione, soprattutto nel settore dell’energia”; a parlare è il primo ministro giapponese, Yoshihiko Noda, in occasione dell’anniversario del disastro. “Abbiamo discusso questa possibilità con le autorità russe e siamo giunti alla conclusione che entrambi i Paesi devono impegnarsi in questa direzione”.
Il Giappone ha sempre contato sul petrolio e il gas siberiani, contribuendo allo sviluppo della piattaforma continentale nelle vicinanze dell’Isola di Sakhalin. Dopo il disastro, la Russia, in risposta a una richiesta del Giappone, ha subito aumentato la fornitura di gas naturale liquefatto. I negoziati sulla costruzione di un secondo impianto per la liquefazione del gas in Estremo Oriente ha acquisito slancio e l’oleodotto Siberia Orientale-Oceano Pacifico raggiungerà in dicembre il porto di Kozmino, sulla costa del Mar del Giappone. Ci sono tutte le basi oggettive, sia dal punto di vista geografico che delle risorse, per un salto di qualità nei rapporti tra Giappone e Russia.
L’unico problema rimangono, tuttavia, le rivendicazioni di Tokyo relative alla questione controversa delle Isole Curili, che continuano a ostacolare il miglioramento qualitativo dei rapporti con Mosca. E gli Stati Uniti si dimostrano particolarmente sensibili a qualsiasi tentativo da parte di Mosca di fondare su interessi energetici comuni le sue relazioni con i Paesi vicini. Ciò è avvenuto già in Europa quando sono stati discussi i progetti per la costruzione di gasdotti dalla Russia.
Dunque, qualora Tokyo decida di collaborare con Mosca nel settore energetico - e il Giappone ha ben poche alternative al momento – non solo dovrà rivedere le sue pretese territoriali sulla Russia, ma dovrà anche prendere in considerazione il parere degli Stati Uniti, che, nel dopoguerra, sono stati gli unici garanti della sicurezza del Paese.
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