Foto: Nikolay Korolev
Igor Isaev
non è l’ennesimo laureato al Central
Saint Martin's College of Art
and Design di Londra, Mtv-dipendente e frequentatore assiduo del Sunday Up
Market. È uno stilista esperto, che ha lavorato per i migliori
marchi del mondo e ha aperto il proprio flagship store, chiamato Grunge John
Orchestra.Explosion, sul Nikitskij Boulevard a
Mosca. Dopo
aver studiato in Italia, Bulgaria e Romania le tecniche di produzione più innovative,
dai procedimenti per la tintura e il trattamento dei filati alla realizzazione
di tessuti a membrana, Igor ha deciso di tornare in Russia e mettere in
pratica tutte le sue conoscenze.
Il termine "Grunge", che compare nel nome del marchio, ci rimanda subito a Kurt Cobain e ai Nirvana, alla rivista Sassy e alla Generazione X. Se parliamo di moda invece alla sfilata di Anna Sui del 1995, a Christian Francis Roth, a Zuli Beth, e ovviamente al fallimento commerciale della collezione di Marc Jacobs del 1993, per la casa di moda Perry Ellis.
Che cos’è il grunge? Che cosa l'ha attratta di questa visione del mondo?
Per me il grunge è innanzitutto una filosofia, una piattaforma ideologica che si basa su oggetti conosciuti o che sentiamo vicini a noi. Sono tutte quelle cose, quei capi, che hanno una storia, un non so che di familiare, custoditi nella zona subcorticale della nostra coscienza, con un effetto consumato e sgualcito. C’è a chi questo stile non piace, ma noi per ora non abbiamo avuto problemi con le vendite. Vogliamo creare dei capi che non si identifichino troppo in un’unica sottocultura, ma che siano facilmente assimilabili. È possibile creare capi totalmente grunge, sbiaditi e lacerati, che sembra abbiano 50, 40, 30 anni, ma che durano nel tempo, grazie ai materiali di alta qualità: ecco questa è la nostra idea.
Oltre ai vestiti che produci, quali marchi indossa o indossava in passato? Segue le creazioni di qualche designer in particolare? Quali marchi preferisce?
Prima seguivo la corrente underground, che adesso è diventata più marginale. Ad esempio Carol Christian Poell, i giapponesi come Attachment. Mi piaceva molto anche Stone Island. Non ho un marchio che prediligo più di altri: se qualcosa mi piace, la compro.
State cercando di riunire attorno al marchio un determinato target di persone, una community. Chi sono i vostri clienti?
Prima ho sempre pensato che si trattasse di persone intellettuali, che non dipendono dai marchi. Dei nostri capi, apprezzano i materiali di qualità e la sartoria, uniti allo stile. Sono persone di per sé alla moda, ma che non dipendono dall’opinione degli altri. Sono individui autosufficienti, sicuri di sé e intellettuali. A volte sono anche giovani, ma di 16-18 anni. Per i ragazzi, in particolare, è molto importante il prezzo e la moda all’interno di una community. Anch’io sono stato ragazzo e mi ricordo, ad esempio, che, se avevo bisogno di un paio di Dr. Martens, e volevo quelle con le punte di ferro e nessun’altra, non guardavo neanche gli altri modelli, che consideravo troppo pop. E loro fanno lo stesso, ci sono ancora dei meccanismi interni. Ed è giusto così, sono loro a scegliere. Poi un domani confronteranno la qualità e con il tempo capiranno.
Ha lavorato per molti anni in Italia, realizzando giacche per diversi marchi. Che cosa haimparato da quell’esperienza?
Ho imparato che in Italia c’è un’industria che funziona molto bene. Non è come qui, in Russia, dove mi sono scontrato con grossi problemi e tuttora continuo a farlo: ultimamente poi i problemi non fanno che aumentare perché si produce sempre meno, in particolare per quanto riguarda la produzione di qualità, le sarte invecchiano e i marchi giovani, che sono sul mercato, sono molto commerciali e non offrono un alto livello qualitativo.
Checosa l'ha spinta a tornare in Russia e a ricominciare qui tutto da zero?
Beh, devo dire che non credevo fosse tutto così difficile. In Russia non c’è affatto un’industria. Siamo partiti con l’idea di creare una piccola serie per un primo negozio, poi per un secondo, e infine per un terzo. Ma ora ci scontriamo già con il problema che qui è quasi impossibile produrre grandi quantità, in tempi brevi: il centro commerciale Gum si era subito rivolto a noi, quando abbiamo aperto, chiedendoci dei capi, ma noi non siamo stati in grado di soddisfare la richiesta perché effettivamente non avevamo nulla in mano, era tutto in prenotazione. Perché qui non c’è un’industria come in Italia, dove puoi comprare tutto, e quello che non puoi comprare te lo portano. Tutto senza alcun problema. In Russia, invece, bisogna ordinare tutto. Non è possibile garantire una produzione di qualità a meno che non si lavori con fornitori europei.
Lavori nel settore da più di 15 anni. Che cos’è cambiato in questi anni nello stile dei moscoviti?
In realtà, il mercato russo è iniziato a cambiare circa 10 anni fa. Prima c’erano i negozi, molti street-retail. Su Smolenskaja Uliza, erano comparsi i primi negozi di moda giovane, poi con il primo centro commerciale “Manezh”, sono arrivati negozi come “Bulldog”. Lì ho cercato di fare vestiti per un pubblico giovane. Ma i centri commerciali hanno cambiato tutto. Ora la situazione sta cambiando di nuovo, negli ultimi due anni c’è stato nuovamente un forte aumento di street-retail, proprio a Mosca. Semplicemente perché al giorno d’oggi è molto difficile comprare uno spazio al primo piano di un centro commerciale. L’unico problema da noi è che la città non è stata progettata per questo scopo, non ci sono strade per gli street-retail. È necessario rifare tutto. Non è facile.
Che cosa invece è rimasto invariato?
In passato, innanzitutto, la gente si vestiva di nero. Poi tutto doveva essere molto rigoroso. La gente amava apparire più ricca. E ciò significava cappotti di cachemire, pellicce costose, un’esplosione di pelli e pellicce di ogni genere, finiture e così via. Era una vera e propria epidemia. Con l’arrivo dei marchi giapponesi, si è iniziato a vendere tessuti vintage, che possono essere anche più costosi del cachemire. La gente ha iniziato un po’ alla volta ad andare all’estero. Mi ricordo ancora quando viaggiavo in aereo e mi capitava di vedere queste persone con cappelli e colbacchi di visione. Ora a Mosca non se ne vedono più. È una cosa piuttosto recente, almeno per me. Mosca ora è molto più europea, sia all’esterno, che all’interno, in termini di contenuto. I giovani sotto i 30 anni sono molto europei e difficilmente diresti che sono russi. Mentre in passato si capiva all’istante che erano russi. Ora, forse solo per l’aspetto fisico e il viso teso. Mosca sta chiaramente cambiando in meglio.
Domanda classica per un designer: che cosa la ispira quando crea le sue collezioni?
In linea di principio, anche una conversazione con una persona piacevole può ispirarmi. Ad ogni modo, la mia fonte principale d’ispirazione è la musica, tutto ciò che è legato alla cultura musicale, tutto ciò che la circonda.
E quali generi o gruppi preferisce?
Beh, la lista è molto lunga! Possiedo solo dischi originali, più di seimila. Dal new jazz al rock psichedelico e dal new rock all’elettronica.
È cresciuto a Ivanovo, cittadina con una lunghissima tradizione sartoriale. In che modo questo ha influito sulla sua decisione di dedicarsi alla produzione di vestiti?
Sinceramente, in nessun modo. Nel periodo della scuola ero sempre in giro, facevo parte di un gruppo musicale famoso di bambini, andavamo a Mosca, ci esibivamo alle feste in televisione, dove conoscevo semplicemente altre persone. Mi sono appassionato alla musica sin dai tempi dell’asilo e quando avevo 15 anni, sono iniziate a circolare le riviste occidentali, con le foto dei nostri gruppi musicali preferiti. E noi guardavamo i poster. Poi io facevo parte contemporaneamente di un gruppo con mio fratello e poi di un altro ancora, e avevamo bisogno di vestiti per esibirci. Ha avuto inizio tutto da qui, per gradi: dovevamo fare i jeans, le T-shirt con le scritte. Quindi prendevamo i vestiti, li coloravamo, li cucivamo, li decoravamo con stampe adesive e applicazioni in pelle, un po’ come fanno i nonni che amano montare e smontare tutto. Per quanto riguarda la mia avventura all’Istituto Tessile, mi hanno cacciato all’esame perché ero vestito in modo troppo appariscente. Io pensavo che bisognasse stupirli con lo stile. Ma quando sono arrivato, mi sono trovato davanti una schiera di ragazze tutte vestite con le stesse scarpette bianche, le gonne nere, e le calze color carne. In epoca sovietica non volevano cambiare nulla.
Si è letteralmente catapultato sulla scena moscovita, riscuotendo, tra le altre cose, un grande successo. Di lei scrivono Afisha e Furfur. Da quanto tempo covavia questa idea e come si è preparato al lancio?
Ho sempre voluto creare un marchio tutto mio. Ma prima di imbarcarmi in un’avventura simile, volevo farmi le ossa. Se non avessi iniziato lavorando per altri marchi, non ce l’avrei fatta. Ho sempre nutrito un forte interesse per la produzione dei capi, anche più del dovuto, dedicando molto tempo allo studio come autodidatta. L’idea è nata una quindicina di anni fa, quando ho iniziato a vendere le mie creazioni nel centro commerciale Gum. Si trattava di vestiti per una clientela giovane. Ed è proprio così che poi sono finito in Europa. I rappresentanti di alcune catene mondiali si sono interessate ai miei lavori e mi hanno offerto delle collaborazioni. Nel giro di 10 anni, ogni mese, andavo in produzione e creavo nuovi accessori, schizzi, che riscuotevano un grande successo sulle passerelle.
Nel suo flagship store è possibile scegliere i materiali per uno dei 15 modelli di giacche proposte e adattarlo poi alla propria figura. Lo stesso vale per i jeans. C’è la possibilità di personalizzare ogni cosa. Una pratica, tipica del settore del lusso (couture) o dei piccoli atelier privati. Non vi state imbarcando in un’impresa un po’ colossale? Quanto è fattibile questo discorso a Mosca?
Nutro già dei timori. Non ci aspettavamo un boom simile di richieste. Materialmente non riusciamo a starci dietro. I clienti vogliono avere tutto e subito, ma per questo ci vuole un team numeroso. Noi in tutto siamo 12 persone, laboratori inclusi. Possiamo accorciare i jeans, allungare le maniche di una giacca, ma per il momento abbiamo accantonato il rimaneggiamento completo del capo. Io in persona realizzo gli schizzi, mi occupo degli accessori e delle prove, e questo lavoro mi assorbe completamente. Anche i progettisti sono totalmente immersi nella produzione. A Mosca non ci sono sarti, persone con una formazione tecnica. Da noi arrivano delle persone che sostengono di saper fare il lavoro che noi ricerchiamo. Ma poi in corso d’opera, ci accorgiamo che commettono un’enorme quantità di errori.
Avete partecipato alla fiera della moda più importante dell’Europa Orientale, la Collection Premiere Moscow (Cpm 2011). Quali sono stati i benefici di partecipazione. Siete riusciti a raccogliere contatti utili per lo sviluppo del brand nelle altre regioni della Russia? Parteciperete anche alla Cpm del 2012?
Sì, abbiamo raccolto diversi contatti, molti vogliono vendere i nostri vestiti nelle regioni, anche se evitiamo questo tipo di collaborazione. Purtroppo i negozi che hanno dimostrato il loro interesse non rispecchiano il nostro spirito e la nostra filosofia. Ad esempio, la nostra nuova collezione propone degli abiti con tessuti di altissima qualità, ma simili, per aspetto, a capi second-hand. Dubito che il consumatore delle regioni sia interessato a un capo simile. A Mosca ci interessano in tutto 2-3 negozi. Abbiamo aperto un corner nel centro commerciale Gum e si parla anche di una possibile apertura nel centro commerciale “Cvetnoj”.
Ha anche in progetto di “aprire un piccolo negozio in ogni città principale del mondo”. Ne potrebbe elencare qualcuno e spiegarci in poche parole perché le ha scelte?
I nostri capi sono vicini all’Europa occidentale, quindi direi Londra, Parigi, Bruxelles, Firenze… E poi, ovviamente, il nostro sogno è vendere in Giappone. Tuttavia, nonostante gli affitti iperbolici di Mosca, ci piacerebbe molto iniziare proprio dalla Russia. Del resto siamo russi, per noi è difficile stare senza il nostro Paese.
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