La
mostra di Olga Sviblova non è romantica quanto il Castello di Rivoli, ma presenta
ai visitatori quell’utopia russa da cui scaturì la realtà sovietica della
conquista dello spazio e il mito del cosmo, poi distrutto dall’irriverente arte
contemporanea russa. E l’arte contemporanea in questa mostra la fa da padrona.
Lei si trova a dover risolvere nella
pratica un problema complesso come quello della creazione di un’identità
nazionale russa; da molti anni organizza mostre fotografiche sull’avanguardia
russa, ma a quanto pare questo tema è ormai esaurito.
Portiamo all’estero diverse
mostre, ma al pubblico occidentale, effettivamente, interessa soprattutto
l’avanguardia. La mostra su Rodchenko la stiamo proponendo da parecchi anni, ma
di volta in volta la adattiamo ai vari Paesi. A Londra lo abbiamo presentato
come un classico del modernismo, perché il modernismo non ha toccato
l’Inghilterra. A Berlino, invece, al Martin-Gropius-Bau, dove Rodchenko esponeva
i suoi lavori già alla fine degli anni Venti e dove il pubblico sa già tutto
del modernismo, presentiamo la tragedia di un artista assassinato dal sistema. A
Roma la mostra era in un’ottica ancora diversa: la storia
completa della vita dell’artista.
Rodchenko
però lo hanno già visto tutti, mentre quella del cosmo è una nuova trovata per l’esportazione,
un vero e proprio mito russo.
“Russian Cosmos”
racconta la storia della nascita di questo mito, sulla base di materiali unici:
i disegni di Tsiolkovskij, un suo modello di dirigibile, l’apparecchio acustico
grazie al quale lo scienziato ascoltava la musica delle sfere celesti. E,
accanto a questi oggetti, le opere degli avanguardisti russi che si ispirarono
alle sue idee. Nella mostra esponiamo i lavori di Vasilij Chekrygin sulla
resurrezione del corpo: si basano sulle dottrine di Nikolaj Fedorov, l’unica corrente
originale della filosofia russa, che oggi grazie alle nuove conquiste della
scienza sta diventando realtà.
Parla
della clonazione?
Sì. I russi sono
portati per le grandi idee utopistiche, che prima o poi diventano realtà.
Tsiolkovskij fu seguace di Fedorov e maestro di Korolev. Noi illustriamo come
nacque e si sviluppò l’idea russa del cosmo, come in Unione Sovietica lo spazio
venne mitizzato fino a diventare un simbolo del revanscismo politico. Fin dal ’67
Francisco Infante ha instaurato un
dialogo con l’avanguardia russa, mutuandone il sistema plastico, ma non
l’ideologia totalitaristica. “Ricostruzione
del cielo stellato” è un’opera geniale sulla conquista dello spazio cosmico
come forma di violenza sulla natura.
Le opere di Francisco Infante sono belle,
ma dopo di lui si è visto solo un atteggiamento di derisione.
Certo, negli anni
Ottanta tutti i miti sovietici sono stati sconsacrati. L’artista li mette alla
prova per verificarne la resistenza: tutti gli altri miti sovietici finiscono a
gambe all’aria, ma quello del cosmo sopravvive. Tutta la nostra arte degli anni
Ottanta gioca con il sogno dello spazio, naturalmente non senza ironia. Le
opere del gruppo pietroburghese ASSA sono al tempo stesso eroiche e ironiche.
Si tratta, certo, di un impeto di energie giovanili, selvaggio e carismatico, che
però si esprime all’insegna del cosmo. In un’opera di Timur Novikov dello
stesso periodo c’è un piccolo modulo lunare sullo sfondo di un orizzonte molto
alto, alla Malevich: è la storia di un piccolo uomo al cospetto di un mito grandioso.
Forse lei ritiene che il cosmo sia
ancora oggi un sogno?
Il mito dello
spazio non è finito, anche se ne siamo tutti ormai stufi; lo slogan era “noi, però,
sappiamo costruire i razzi…”. Mentre stavo allestendo la mostra ho saputo che
un nostro razzo era esploso, e che uno dei frammenti aveva sfondato il tetto di
una casa in via dei Cosmonauti.
In
questo episodio non c’è nessuno da rimproverare per eccesso di ironia.
Il mito dello spazio non è morto, perché comprende il principio dell’eroismo,
di cui c’è sempre bisogno. L’opera dei “Sinie nosy” in cui un razzo parte dai
pantaloni è ovviamente una birichinata, ma ha anche una valenza romantica. Non
mi sembra che in questa mostra vi sia troppa ironia. Il percorso si conclude
con Gagarin, il cui volo ha regalato non solo a noi, ma a tutto il mondo,
un’esplosione di gioia, di energia mentale.
Per arrivare al finale stellato di
Gagarin bisogna passare attraverso i rovi, delle silhouette di corpi celesti fatte
di filo spinato, opera dell’artista Sergej Shutov.
Naturalmente,
tutti capiscono a che cosa allude quel filo spinato. Ma, nonostante tutto, il
cosmo deve diventare uno spazio di libertà, come sognava Tsiolkovskij.
Porterete
questa mostra anche a Mosca?
L’abbiamo preparata
appositamente per il Castello di Rivoli, abbiamo commissionato alcune opere
agli artisti, ne abbiamo ritirate fuori delle altre, vecchie, che non venivano
esposte da molto tempo. Certamente ci
piacerebbe esporla in altri paesi e a Mosca, completandola con la geniale
installazione di Ilja Kabakov “L’uomo che volò nello spazio dal suo
appartamento”. Tutti noi, ogni tanto, abbiamo voglia di entrare in un’altra
dimensione, di sentirci liberi. Io sono convinta che dobbiamo mostrarci così
come siamo: solo così potremo risultare interessanti per gli altri.
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