Come l'utopia dello spazio divenne realtà

Parla Olga Sviblova, curatrice della mostra “Russian Cosmos”, fino al 26 febbraio 2012 al Museo d’Arte Contemporanea nel Castello di Rivoli


La mostra di Olga Sviblova non è romantica quanto il Castello di Rivoli, ma presenta ai visitatori quell’utopia russa da cui scaturì la realtà sovietica della conquista dello spazio e il mito del cosmo, poi distrutto dall’irriverente arte contemporanea russa. E l’arte contemporanea in questa mostra la fa da padrona.

Lei si trova a dover risolvere nella pratica un problema complesso come quello della creazione di un’identità nazionale russa; da molti anni organizza mostre fotografiche sull’avanguardia russa, ma a quanto pare questo tema è ormai esaurito.
Portiamo all’estero diverse mostre, ma al pubblico occidentale, effettivamente, interessa soprattutto l’avanguardia. La mostra su Rodchenko la stiamo proponendo da parecchi anni, ma di volta in volta la adattiamo ai vari Paesi. A Londra lo abbiamo presentato come un classico del modernismo, perché il modernismo non ha toccato l’Inghilterra. A Berlino, invece, al Martin-Gropius-Bau, dove Rodchenko esponeva i suoi lavori già alla fine degli anni Venti e dove il pubblico sa già tutto del modernismo, presentiamo la tragedia di un artista assassinato dal sistema. A Roma la mostra era in un’ottica ancora diversa: la storia completa della vita dell’artista.        

Rodchenko però lo hanno già visto tutti, mentre quella del cosmo è una nuova trovata per l’esportazione, un vero e proprio mito russo.
“Russian Cosmos” racconta la storia della nascita di questo mito, sulla base di materiali unici: i disegni di Tsiolkovskij, un suo modello di dirigibile, l’apparecchio acustico grazie al quale lo scienziato ascoltava la musica delle sfere celesti. E, accanto a questi oggetti, le opere degli avanguardisti russi che si ispirarono alle sue idee. Nella mostra esponiamo i lavori di Vasilij Chekrygin sulla resurrezione del corpo: si basano sulle dottrine di Nikolaj Fedorov, l’unica corrente originale della filosofia russa, che oggi grazie alle nuove conquiste della scienza sta diventando realtà.      

Parla della clonazione?
Sì. I russi sono portati per le grandi idee utopistiche, che prima o poi diventano realtà. Tsiolkovskij fu seguace di Fedorov e maestro di Korolev. Noi illustriamo come nacque e si sviluppò l’idea russa del cosmo, come in Unione Sovietica lo spazio venne mitizzato fino a diventare un simbolo del revanscismo politico. Fin dal ’67  Francisco Infante ha instaurato un dialogo con l’avanguardia russa, mutuandone il sistema plastico, ma non l’ideologia totalitaristica.  “Ricostruzione del cielo stellato” è un’opera geniale sulla conquista dello spazio cosmico come forma di violenza sulla natura.  

Le opere di Francisco Infante sono belle, ma dopo di lui si è visto solo un atteggiamento di derisione.
Certo, negli anni Ottanta tutti i miti sovietici sono stati sconsacrati. L’artista li mette alla prova per verificarne la resistenza: tutti gli altri miti sovietici finiscono a gambe all’aria, ma quello del cosmo sopravvive. Tutta la nostra arte degli anni Ottanta gioca con il sogno dello spazio, naturalmente non senza ironia. Le opere del gruppo pietroburghese ASSA sono al tempo stesso eroiche e ironiche. Si tratta, certo, di un impeto di energie giovanili, selvaggio e carismatico, che però si esprime all’insegna del cosmo. In un’opera di Timur Novikov dello stesso periodo c’è un piccolo modulo lunare sullo sfondo di un orizzonte molto alto, alla Malevich: è la storia di un piccolo uomo al cospetto di un mito grandioso.       

Forse lei ritiene che il cosmo sia ancora oggi un sogno?
Il mito dello spazio non è finito, anche se ne siamo tutti ormai stufi; lo slogan era “noi, però, sappiamo costruire i razzi…”. Mentre stavo allestendo la mostra ho saputo che un nostro razzo era esploso, e che uno dei frammenti aveva sfondato il tetto di una casa in via dei Cosmonauti.  

 

In questo episodio non c’è nessuno da rimproverare per eccesso di ironia.
Il mito dello spazio non è morto, perché comprende il principio dell’eroismo, di cui c’è sempre bisogno. L’opera dei “Sinie nosy” in cui un razzo parte dai pantaloni è ovviamente una birichinata, ma ha anche una valenza romantica. Non mi sembra che in questa mostra vi sia troppa ironia. Il percorso si conclude con Gagarin, il cui volo ha regalato non solo a noi, ma a tutto il mondo, un’esplosione di gioia, di energia mentale.  

Per arrivare al finale stellato di Gagarin bisogna passare attraverso i rovi, delle silhouette di corpi celesti fatte di filo spinato, opera dell’artista Sergej Shutov.  
Naturalmente, tutti capiscono a che cosa allude quel filo spinato. Ma, nonostante tutto, il cosmo deve diventare uno spazio di libertà, come sognava Tsiolkovskij.

 

Porterete questa mostra anche a Mosca?
L’abbiamo preparata appositamente per il Castello di Rivoli, abbiamo commissionato alcune opere agli artisti, ne abbiamo ritirate fuori delle altre, vecchie, che non venivano esposte da molto tempo. Certamente ci piacerebbe esporla in altri paesi e a Mosca, completandola con la geniale installazione di Ilja Kabakov “L’uomo che volò nello spazio dal suo appartamento”. Tutti noi, ogni tanto, abbiamo voglia di entrare in un’altra dimensione, di sentirci liberi. Io sono convinta che dobbiamo mostrarci così come siamo: solo così potremo risultare interessanti per gli altri. 

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