Jobs e Skolkovo: hi-tech e arte

Foto: Ap

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Il fondatore di Apple, scomparso di recente, era un ammiratore del progetto di una Silicon Valley russa. L`ultimo incontro con il corrispondente dagli Usa del quotidiano russo “Izvestia”

La prima volta che incontrai Steve Jobs fu in California nel 1977, all’inizio della sua carriera. Era alla sua prima avventura in ambito internazionale col suo primo personal computer: l’Apple II. L’ultima volta fu invece nel 2010, al Yerba Buena Center for the Arts di San Francisco, dove presentava il suo iPad. Questi due momenti in un certo senso incorniciano l’intero percorso di Steve Jobs nel mondo del digitale e delle arti.

All’inizio il papà di Apple era una specie di hippy del mondo digitale. Jobs era un personaggio straordinario: né uno scienziato, né un ingegnere, eppure era le due cose insieme, e molto altro ancora. Mi parlò delle esperienze vissute negli anni Sessanta e di come tutte, compresa l’Lsd, posero le basi del suo successo a capo di Apple.

Il paradosso di Oscar Wilde: “L’unico modo per liberarsi di una tentazione è cedervi” era il suo motto. Disse di aver sempre ceduto alle tentazioni, e di aver spesso sofferto per questo. Tutti lo ricordano coi jeans e l’inconfondibile dolcevita nero. Ammetteva scherzosamente di assomigliare un po’ a Chodorkovskij.  

L’ultima volta che ci siamo incontrati l’argomento centrale della nostra conversazione fu Skolkovo. Jobs credeva che una nuova Silicon Valley dovesse nascere dal basso piuttosto che essere imposta dall’alto. Prendendo ad esempio il modo in cui lui e l’altro co-fondatore di Apple, Steve Wozniak, fecero nascere la loro impresa in un garage, Jobs disse: “Prendere Skolkovo troppo sul serio come state facendo voi potrebbe avere effetti negativi”.

Una volta disse di sé: “Sono musica e cultura pop, sono cinema e creatività”. Era completamente immerso nella cultura pop contemporanea e pensava fosse proprio questo il segreto del suo successo. “Se Skolkovo vuole avere successo, deve diventare un centro non solo per la scienza ma anche per la cultura, la musica e il cinema moderni”: ecco come la pensava. Tra l’altro mentre mi parlava non indossava nemmeno le sue solite scarpe da tennis, era scalzo. Dopo tutto non era casa sua, ma un centro d’arte.

Tutte le sue invenzioni hanno consentito il trasferimento in digitale di varie forme d’arte moderna. Per questo diceva che non era un caso che avesse comprato la Pixar da George Lukas. Parlandomi dell’iPad, poi, ripeteva continuamente che la tecnologia e l’arte sono indissolubilmente legate.

Negli ultimi anni il suo volto rifletteva una disperata mancanza di tempo. Era sempre teso. Da giovane invece era un bel ragazzo coi baffi e i capelli lunghi. Ma ora sembrava quasi che volesse trattare con la sua malattia per ottenere un po’ più di tempo, il tempo sufficiente per andarsene lasciando un alone di gloria. Cosa che è riuscito a fare grazie all’iPad e all’iPhone.

Ha incarnato sia la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta che la rivoluzione tecnologica degli anni Ottanta e Novanta. Forse Steve è stato il primo tra noi a entrare nel Ventunesimo secolo inneggiando a una fusione di cultura e tecnologia. Proprio verso la fine rese onore a un manifesto culturale degli anni Sessanta citandone le parole conclusive: “Stay Hungry. Stay Foolish” (Siate affamati. Siate folli).  Sappiamo che non era certo folle, ma senz’altro è stato sempre affamato di nuovi traguardi.

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