Fonte: Andru Tkalenko
Il mondo ricorda il decimo anniversario dell’inizio della guerra mossa dagli Usa e dai loro alleati contro i talebani. Una data che offre una buona occasione per domandarsi quali lezioni i leader e i vertici militari dell’Occidente hanno tratto dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Le due campagne presentano molti aspetti comuni, ma anche alcune differenze: prima tra tutte il fatto che nel 1979, quando Mosca inviò i propri uomini, lo fece per proteggere un regime amico dalla presenza di forze ostili ed evitare che l’Afghanistan potesse sottrarsi alla sua sfera di influenza. Obiettivo dell’Occidente invece era distruggere le basi terroristiche. Mentre nel primo caso si trattava di un capitolo della lotta globale tra “fronte socialista” e praticamente il resto del mondo (che innestò l’epilogo della Guerra Fredda), il secondo è nato come risposta della Casa Bianca agli attacchi dell’Undici Settembre.
Trentadue anni fa, quando vennero dislocati nel vicino Afghanistan, i generali
dell’Unione Sovietica non si preoccuparono nemmeno di allestire basi logistiche
per le proprie unità. Si riteneva che le bande di guerriglieri islamici muniti
di armi obsolete sarebbe stati sconfitti in poco tempo e che i sovietici
sarebbero presto tornati alle loro consuete postazioni. Di lì a breve, però, ci
si rese conto che i mujaheddin non erano che la punta di un iceberg e si
avvalevano dell’imponente sostegno di Stati Uniti, Arabia Saudita, Cina,
Pakistan, Egitto e una moltitudine di altri Stati che avevano colto al volo
l’occasione per dichiarare l’Unione Sovietica un “impero del male”, trascinarla
in una protratta guerra di logoramento e vincere la Guerra Fredda. Invece, la
coalizione che oggi si oppone ai talebani e Al Qaeda gode praticamente del
sostegno del mondo intero, compreso quello della Federazione Russa.
Quali elementi accomunano i due conflitti? Trentadue anni fa, non appena
entrate a Kabul, le forze speciali sovietiche liquidarono per prima cosa
Hafizulla Amin, capo della leadership afghana sospettato di collaborare con la
Cia. Al posto di Amin fu insediato Babrak Karmal, accuratamente istruito dal
Cremlino sul modo “corretto” in cui avrebbe dovuto governare il Paese. Anche
l’invasione da parte di Usa e Nato è stata preceduta da un assassinio politico
di alto profilo: quello di Ahmad Shah Massoud, all’epoca l’unico afghano capace
di affermarsi come vero leader nazionale.
A partire da quel momento la Casa Bianca ha insediato nel palazzo di comando
Hamid Karzai, facendo di tutto per legittimarne la posizione agli occhi della
popolazione. I sovietici, soprattutto nei primi anni della loro presenza in
Afghanistan, fecero di tutto per imporre agli afghani le proprie idee circa la
struttura dello Stato e la vita pubblica. Oggi, con una tenacia suicida, gli
americani commettono lo stesso errore quando tentano invano di imporre i loro
“valori democratici” ai pashtun, ai tagiki, agli hazari e agli altri abitanti
delle zone remote e montuose del Paese.
L’arrivo delle unità della Nato e dell’Isaf ha dato nuovo vigore alla
guerriglia afghana, così come era capitato all’indomani dell’invasione da parte
del “contingente limitato” delle truppe sovietiche. Per quanto possa apparire
strano, più le fila della coalizione al di là del fiume Panj si ingrossavano,
più la situazione militare e politica peggiorava.
L’Occidente non vincerà mai nel Paese con la sola forza militare. Oltre agli
esiti della campagna, molti analisti sottolineano che la guerra contro i
mujaheddin ha avuto effetti devastanti sull’economia sovietica, oltre a minare
il morale della nazione e compromettere drasticamente il sostegno mondiale per
il regime sovietico.
Ma oggi la posta in gioco è la sicurezza di tutta la civiltà occidentale.
Talvolta i miei colleghi stranieri mi chiedono perché molti afghani serbano un
bel ricordo dei russi, mentre non dimostrano alcun sentimento di gratitudine
nei confronti di coloro che oggi rischiano la propria vita per difenderli dai
talebani e da Al Qaeda. Il fatto è che noi, oltre a
lottare contro i fondamentalisti, investimmo miliardi di dollari nella
costruzione di infrastrutture come strade, ponti, tunnel, fattorie e scuole.
Inoltre, decine di migliaia di afghani hanno studiato in Russia e in altre
repubbliche sovietiche. Questa rimane anche oggi l’unica strada da seguire per
invertire la situazione. Occorre che alle operazioni militari “chirurgiche” si
affianchino progetti capaci di cambiare il volto del Paese e la mentalità della
sua gente.
Nei primi anni Novanta in Russia si sentiva dire spesso che non avevamo il
diritto di lasciare il Paese alla mercé degli estremisti. La sconfitta della
jihad si è rivelata una vittoria di Pirro: caos, guerra civile e un numero
persino maggiore di vittime, culminati con la presa del potere da parte dei
talebani e la trasformazione dell’Afghanistan in un centro del terrorismo
internazionale. Si potrebbe dire che 25 anni fa tale esito fu la conseguenza
della Guerra Fredda, e che oggi il mondo è diverso. Il rischio però esiste
ancora.
Dal 1981 al 1992, l’autore ha lavorato come corrispondente in Afghanistan per numerose testate giornalistiche dell’Unione Sovietica
Tutti i diritti riservati da Rossiyskaya Gazeta
Iscriviti
alla nostra newsletter!
Ricevi il meglio delle nostre storie ogni settimana direttamente sulla tua email