La Russia si stringe a Oslo

Foto: AFP/East News

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La tragedia avvenuta in Norvegia mette in evidenza i cambiamenti in atto nel panorama sociale

Nell'aprile del 1995 a Oklahoma City saltò in aria un edificio dove avevano sede diversi dipartimenti federali. Quasi nessuno nutriva dubbi sul fatto che dietro all'attentato più sanguinoso della storia americana ci fosse la mano dei fanatici musulmani, che due anni prima avevano cercato di colpire il palazzo del Wto a New York. Ma, con grande sorpresa degli americani, l'attentatore si rivelò essere il 27enne Timothy McVeigh, veterano della Guerra del Golfo, un bianco radicale di estrema destra.

I terribili fatti avvenuti in Norvegia ricordano quegli eventi americani. Le versioni riguardo a una possibile matrice islamica, curda, libica dell’attentato hanno in breve lasciato il posto alla scioccante verità: il sanguinoso massacro è stato organizzato da un vero norvegese, Anders Bering Breivik, che anche nell'aspetto ricorda gli “ariani ideali” dei film di Luchino Visconti e Bob Fosse.

La tragedia di Oklahoma oggi appare come epigrafe funesta a quello che è stato lo sviluppo successivo dell'America. Timothy McVeigh voleva punire il governo “tirannico” degli Stati Uniti per quello che lui e altri estremisti di destra consideravano come uno spudorato attacco alla libertà dei cittadini. A distanza di 15 anni, alle elezioni per il congresso del 2010, l'attenzione degli elettori è andata soprattutto a quei politici che condividevano quest'enfasi. Il movimento del Tea Party, la variegata coalizione di populisti di destra che ha preso piede ultimamente negli Stati Uniti, considera le istituzioni federali come il nemico numero uno. Questo tipo di tradizione affonda le proprie radici nella storia degli Stati Uniti. Tuttavia la polarizzazione della società, la radicalizzazione dei punti di vista e il reciproco isolamento dei partiti, i quali (come dimostrano anche le trattative riguardo all'innalzamento del limite del debito pubblico) sono pronti a condannare la situazione a un peggioramento pur di non scendere a compromessi, in questi ultimi anni sono arrivate a livelli preoccupanti. Il meccanismo politico-sociale che rendeva possibile il coordinamento degli interessi, inizia a dare segni di cedimento fatali.

L'attentato europeo ha la stessa natura di quello americano. Sta crescendo la distanza tra le élite di potere e gli elettori, che hanno ormai smesso di capire quello che si possono aspettare. Ovunque si formano partiti populisti di protesta. Hanno posizioni isolazioniste e protezioniste in senso ampio e si oppongono nettamente sia all'afflusso di immigrati, che al multiculturalismo che alla liberalizzazione dei mercati. Di solito tutto questo viene associato all'integrazione europea, esperimento elitario del XX secolo, nella realizzazione del quale è coinvolto tutto l'establishment del Vecchio Mondo.

Breivik, assiduo frequentatore dei forum antimusulmani su internet, in uno dei suoi ultimi interventi aveva definito “traditrice nazionale” la ex-primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland per aver affermato che “ogni persona che possiede un passaporto norvegese è a pieno diritto un norvegese”. Breivik richiedeva la piena assimilazione culturale degli immigrati e si lamentava che le autorità avevano perso la capacità di governare, ritrovandosi sottomessi alla loro stessa “vuota retorica”.

Nei Paesi scandinavi non sono mai mancati i movimenti ultra conservatori, così come esiste una tradizione della violenza politica (soprattutto in Svezia), ma il tutto era sempre rimasto ai margini della società. Probabilmente l’attacco commesso da Anders Breivik e dai suoi eventuali complici (anche McVeigh aveva agito assieme a un ex commilitone) è solo il gesto isolato di fanatici squilibrati. Ma se l'esplosione di Oklahoma City è stata presagio e preludio dell'aggravarsi della crisi della società americana, incapace di stare al passo con i rapidi cambiamenti dell'atmosfera circostante e con i mutamenti interni, l'esplosione di Oslo preannuncia forse futuri cataclismi sociali nel Vecchio Mondo, i cui cittadini non riescono a reagire in modo adeguato alle molteplici sfide della globalizzazione.

La metafora migliore della crisi dell'America, e del mondo, contemporanei è sicuramente il film dei fratelli Coen del 2007 “Non è un paese per vecchi”. Verso il finire della legislazione di George Bush, quando l'80% degli americani era convinto che il Paese stesse seguendo una direzione sbagliata, i due registi hanno fatto vedere come il problema non fosse il presidente, come molti allora speravano, ma proprio i difetti della società, che si erano sviluppati molto prima dell'arrivo di Bush (il film è ambientato nel Texas del 1980) e che non se ne sarebbero andati da nessuna parte dopo la fine del mandato presidenziale. La violenza assolutamente immotivata, spassionata, ma in qualche modo ispirata che si incarna nel protagonista interpretato da Javier Bardem, distrugge il tessuto sociale, mettendo a nudo le manifestazioni umane più disgustose. E alle persone della “vecchia scuola” non resta che allargare le braccia stupiti. L'assurdità della politica internazionale, nella quale è stato consapevolmente cancellato il confine tra la guerra e l'azione umanitaria, entra in perfetta risonanza con i processi distruttivi della società in atto nei singoli paesi, creando un mondo dove non c'è posto non solo per i vecchi, ma per le persone in generale.

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