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Un team di studiosi italiani e russi è riuscito a compiere un passo decisivo verso la sconfitta del morbo di Parkinson. I neuroni dopaminergici, le cellule dalla cui morte dipendono i sintomi del parkinsonismo, potranno essere ottenuti dalla pelle del malato stesso.
Il morbo di Parkinson è uno dei flagelli della civiltà moderna, sempre più vecchia. Secondo le statistiche, in tutto il mondo l'1% delle persone che hanno superato i settant'anni soffre di parkinsonismo. I principali sintomi della malattia sono: rallentamento dei movimenti, tremore delle estremità corporee, rigidità muscolare, instabilità, depressione, ansia, irritabilità e indifferenza verso il mondo circostante.
L'insorgere di tale malattia è legato alla morte di un particolare gruppo di cellule nervose, i neuroni dopaminergici. Con la morte del 70-80% di questi neuroni iniziano ad apparire i primi sintomi del parkinsonismo: disturbi motori e tremore delle estremità. In seguito i malati perdono la capacità di compiere movimenti volontari. La dopamina infatti regola l'attività motoria.
La cura più efficace al giorno d'oggi per il Parkinson venne messa a punto dallo studioso austriaco di origine ucraina Olekh Khornikevich. Nel 1960 descrisse per la prima volta il deficit di dopamina che si creava nei malati di Parkinson e nel 1961 dimostrò l'efficacia di una cura a base di L-dopa, un predecessore della dopamina. Purtroppo Khornikevich, non ricevette il premio Nobel per la medicina (insieme ad Arvid Carlsson) che aveva sicuramente meritato.
La dopamina, conosciuta anche come l'ormone del piacere, serve a regolare il movimento. Quando il suo livello diventa troppo basso insorgono disturbi motori, mentre le conseguenze di un livello di dopamina troppo alto sono l'iperattività, e l'eccitabilità fisica ed emotiva.
In Italia, un gruppo di studiosi tra i quali ci sono anche diversi specialisti di origine russa, sono arrivati a un passo dalla cura definitiva della malattia dalla parte opposta: invece di inoculare la dopamina nell'organismo propongono di compensare il deficit di cellule che la producono, i neuroni dopaminergici, producendoli con materie prime provenienti dall'organismo stesso.
La terapia cellulare, che prevede la sostituzione dei neuroni dopaminergici deteriorati nel cervello dei malati con neuroni nuovi, è un metodo che promette molti risultati. Tuttavia, fino ad oggi la creazione di neuroni a partire dalle cellule del malato veniva ottenuta passando per la fase di cellule staminali pluripotenti indotte (Ips). La sicurezza di queste cellule è però dubbia: infatti possono facilmente trasformarsi in cellule staminali tumorali.
Questo nuovo approccio prevede invece di ottenere i neuroni dopaminergici direttamente dalle cellule dei tessuti connettivi, i fibroblasti. Al momento attuale la tecnologia è stata elaborata in coltura cellulare. Raul Gajnetdinov, farmacologo all'Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, uno degli autori di questa nuova tecnica, parla dei principali risultati del lavoro svolto dal gruppo di studiosi.
Il vostro lavoro apre davvero la strada verso la guarigione completa del parkinsonismo? Come dire che se tra qualche anno Mohammed Ali, vittima illustre del morbo di Parkinson, si rivolgerà a voi potrete prendere dei campioni della sua pelle e trasformarli in neuroni che una volta impiantati lo porteranno alla guarigione dalla malattia?
A livello ideale è così. Però all'inizio bisognerà perfezionare questo metodo sulle cavie. Per ora siamo solo riusciti a creare delle cellule dopaminergiche.
Questo paziente ipotetico dovrà assumere continuamente i neuroni, come ad esempio i malati di diabete con l'insulina?
No, assolutamente: per la riparazione delle funzioni neurali sarà sufficiente un solo trattamento.
Qual è il lavoro svolto dal gruppo di studio?
Insieme ai colleghi siamo riusciti ad ottenere dei neuroni per i malati di parkinsonismo direttamente dalle cellule della loro pelle. All'inizio abbiamo lavorato sulle cellule delle cavie e in seguito su quelle dei malati.
Ci parli degli esperimenti.
Come ormai tutti sanno, è possibile ottenere in laboratorio qualsiasi tipo di cellula a partire dalle cellule staminali embrionali. Però ci sono diversi problemi; prima di tutto la possibilità che si sviluppino cellule tumorali, e in secondo luogo la possibilità di reazioni di rigetto di tessuti estranei. Cinque anni fa, venne elaborato un metodo di deprogrammazione dei fibroblasti fino allo stadio di cellule staminali pluripotenti che potevano poi essere riprogrammati per trasformarsi nel tipo di cellula necessario. Questo era già un passo avanti: i fibroblasti infatti potevano essere presi direttamente dal paziente stesso, evitando così il problema del rigetto. Però restava il problema di sviluppare un cancro. Circa un anno fa è stata dimostrata la possibilità di riprogrammare i fibroblasti in un altro tipo di cellula senza passare per la fase pluripotente. Le ricerche in questo campo si svolgono in modo molto attivo: nel corso di un anno, utilizzando questo metodo, sono stati ottenuti neuroni glutamatergici, cellule del sangue, del fegato, del cuore. Negli ultimi tempi, quasi ogni due settimane vengono pubblicati nuovi articoli che dimostrano le possibilità di applicazione di questa metodica (per lo più sulla rivista Nature). Il nostro gruppo è riuscito a elaborare un metodo per l'ottenimento di neuroni dopaminergici, che sono proprio quelli che si deteriorano nei malati di Parkinson.
Quanto sono durati i lavori?
In tutto circa otto mesi. Come ho già detto, questo è un tema molto “caldo” per la scienza.
Chi ha diretto le ricerche e dove si sono svolte?
L'idea di base, il lavoro e il merito principale spettano a Vania Broccoli dell'Istituto di ricerca del San Raffaele di Milano, in Italia. Alla ricerca hanno preso parte altri tre laboratori dell'Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, due dei quali sono diretti da studiosi russi: uno sono io e l'altro è Aleksandr Ditjatev. Poi ci sono il laboratorio della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste e l'Istituto del Parkinson di Milano. Tra i coautori ci sono altri colleghi russi dell'Iit, Elena Dvoretskova e Tatjana Sotnikova. Tutti gli altri sono scienziati italiani.
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