Quello che è diventato un vero e proprio incubo per Zaira ha avuto inizio la scorsa primavera dopo che due donne, anche loro originarie del Dagestan, si sono fatte esplodere nella metropolitana di Mosca uccidendo 40 persone e ferendo oltre 100 passeggeri. E la situazione si è aggravata dopo il recente attentato all’aeroporto Domodedovo di Mosca (il più grande della Federazione), costato la vita a 35 persone, con circa 150 feriti.
In comune con Zaira, le terroriste avevano qualcosa di più del luogo d’origine: anche i loro mariti erano ribelli uccisi mentre combattevano le forze dell’esercito russo nel Caucaso settentrionale. “Vedove nere” sono state soprannominate le donne che, dopo aver perso i mariti durante la guerriglia, hanno deciso d’immolarsi.
Dopo l’attentato, un giornale russo, la Komsomolskaya Pravda , ha pubblicato le foto di altre 22 potenziali “vedove nere”, con tanto di informazioni personali, compreso il quartiere nel quale vivono. Il primo ritratto dell’elenco era quello di una delle attentatrici della metropolitana di Mosca.
Il titolo dell’articolo era “Mille vedove e sorelle di guerriglieri del Dagestan pronte ad aiutare i terroristi”. Anche la foto di Zaira è comparsa tra quelle pubblicate, e ciò è equivalso chiaramente all’accusa di potenziale attentatrice suicida.
«Sono sconsiderati ad avermi inserito in quell’elenco» ha detto Zaira nel corso di una recente intervista. «Se avessi voluto perpetrare un attentato non sarei rimasta qui a vivere, nella capitale del Dagestan, e non avrei iscritto mio figlio a scuola».
Negli ultimi anni, le agenzie di sicurezza hanno evidenziato la tendenza a etichettare come sospetti terroristi tutti i musulmani fondamentalisti.
Secondo gli attivisti per i diritti umani, in varie occasioni la polizia avrebbe fatto ricorso a tecniche brutali per reprimere manifestazioni di protesta.
Tatyana Lokshina, della sede moscovita di Human Rights Watch, ha detto: «Ti bruciano la casa e da un giorno all’altro tu e la tua famiglia potete scomparire o essere ammazzati». Si tratta, ha aggiunto, di «metodi spietati. Mancano spazi liberi nei quali esternare le proprie opinioni religiose e questo ha spinto in clandestinità molti giovani».
Secondo Lokshina, quando le forze dell’ordine hanno passato ai giornali l’elenco delle cosiddette vedove wahabite, nessuno ha rispettato i diritti di quelle donne, né ha soppesato attentamente le conseguenze che tale iniziativa avrebbe potuto avere sulle loro vite. In fondo, ha aggiunto, è stata una tattica in più nello sporco conflitto che da anni ferisce il Paese.
La polizia, invece, sostiene di combattere contro un nemico letale nel Caucaso. A conferma di ciò, gli agenti ricordano che a metà febbrario nell’Inguscezia hanno arrestato una giovane di 22 anni - Fatima Yevloyeva - con l’accusa di aver fornito supporto al fratello che si è fatto esplodere nell’attentato all’aeroporto di Mosca. Il marito di Fatima era stato ucciso un anno fa durante scontri nel paese tra ribelli e forze di polizia.
Il caso di Zaira, comunque, lascia intendere che alcuni di questi metodi di fatto sono controproducenti. Da quando suo marito è rimasto ucciso in montagna sei anni fa, la donna ha fatto il possibile per tirare avanti e rifarsi una vita. Si è risposata, ha messo al mondo un altro bambino e ha trovato un’occupazione. Era convinta di essere ripartita, ma tutte le speranze si sono infrante dopo l’articolo contenente la sua foto. Zaira ha perso il posto di lavoro come donna delle pulizie in un negozio. Dopo che l’insegnante della scuola pubblica che frequentava suo figlio di otto anni lo ha picchiato per la sua religione, ha dovuto iscriverlo a una scuola religiosa privata. E la polizia, racconta, la interroga di frequente. «Speravamo di inserirci in questa comunità, invece siamo sempre più emarginati», è la sua amara constatazione.
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