Non basta proclamarsi indipendenti per esserloAl
momento la situazione in Kirghizistan è in così continua e rapida
trasformazione che è difficile azzardarsi a esporre valutazioni. Eppure
si può cominciare a trarre un bilancio parziale.
In primo luogo, l’attuale crisi ha dimostrato ancora una volta come il
disfacimento dell’Urss, inteso come creazione di stati nazionali da
parte delle sue ex Repubbliche, sia ancora lontano. Darsi il nome di
“Kirghizistan indipendente” non basta per esserlo. Per diventare
indipendenti è necessaria un’adeguata politica di costruzione dello
stato e della nazione che non si è avuta né sotto la presidenza di Askar
Akayev, rovesciato nel 2005, né sotto quella del suo successore
Kurmanbek Bakiev, destituito quest’anno. Risultato della mancanza di una
nazione politica integrata, principale presupposto per governare
efficacemente, è appunto la tensione interetnica.
In secondo luogo, la situazione ha mostrato quanto sia stretto il
corridoio delle possibilità per la “transizione” negli stati dell’Asia
centrale. Nei prossimi anni in quest’area si parlerà non della scelta
tra democrazia e autoritarismo, ma della presenza o meno di un potere in
quanto tale. Il governo “tecnico” del Kirghizistan guidato da Roza
Otunbaeva sta facendo grandi promesse di trasformare lo stato in una
repubblica parlamentare. Ma considerati la bassa integrazione nel paese,
l’insufficiente legittimità del governo e la mancanza di partiti
politici, ciò crea dei rischi enormi.
Ne consegue, in terzo luogo, che la crisi kirghiza ha posto duramente la
questione della presenza di un arbitraggio e di un intervento
internazionale obiettivo. Il problema, ancora una volta, è se al mondo
esista davvero una comunità internazionale. Rispondere non è facile. Le
strutture internazionali limitano la loro “partecipazione” ai progetti
umanitari. Quanto a Usa, Ue e Russia, non riescono a elaborare
un’adeguata strategia di cooperazione per impedire che sulla carta
geopolitica mondiale compaia un “secondo Afghanistan”. Eppure né alla
Russia, né all’Occidente rimane molto tempo per pensare. La scelta è
ristretta: o si gioca un “gioco a somma zero” e si moltiplica
l’instabilità nell’Oriente post-sovietico o si trovano dei punti di
incontro.
Sergei Markedonov è direttore del dipartimento Relazioni internazionali dell’Istituto d’analisi politico-militare di Mosca
Se Russia ed Europa restano a guardareSe
la Russia, ex “padrona di casa”, ha preferito restare a guardare
l’ultima (per ora) crisi in Kirghizistan, l’Europa si è a malapena
accorta delle violenze scoppiate a giugno a Osh, nel sud del Paese.
Bilancio ufficiale: 316 morti, anche se il capo di stato Roza Otunbaeva
suggerisce 2mila. Poi 100mila profughi e 400mila sfollati che prima di
fuggire dalle loro case hanno disegnato sulle strade grandi Sos sperando
che i satelliti avrebbero rilanciato la richiesta di soccorso. I
satelliti hanno riferito, ma la vicenda è rimasta notizia da scovare sul
web.
Un tempo importante mercato sulla Via della Seta, oggi Osh è tagliata
fuori dalle grandi rotte del commercio, con due eccezioni: prodotti
cinesi e narcotraffico. Questa crisi – tra la preoccupazione di rito
dell’Ue, la cautela Usa e il mancato intervento russo – conferma quanto
la comunità internazionale sia poco interessata a farsi carico di un
altro pezzetto di mondo a enorme rischio instabilità. Per ora interna,
poi chissà. Ma cosa è davvero accaduto nella città di Osh, 4.952 km da
Roma, 3.066 da Mosca, solo 134 dal confine cinese. Dopo lo spodestamento
del presidente Kurmanbek Bakiev, in aprile, il Sud è il fianco
debolissimo del nuovo gruppo al potere guidato dalla Otunbaeva, oggi la
prima donna capo di stato dell’Asia centrale. Ai kirghizi del Sud – più
poveri degli uzbeki dediti al commercio - non è piaciuta l’uscita di
scena del leader avvocato dell’etnia a scapito delle minoranze russa e
uzbeka. Così, forse con l’aiuto di un regista “pro-Bakiev”, i kirghizi
hanno attaccato i vicini di casa uzbeki. Una minaccia, ora che il loro
ex presidente è a Minsk e le nuove autorità prospettano un taglio con il
passato. Insomma un conflitto politico sfociato in scontri etnici in
una zona dove etnia e interessi corrispondono.
La dinamica non è nuova: negli Anni ’90 a Osh migliaia di persone furono
uccise in violenze interetniche . All’epoca fu l’esercito sovietico a
riportare l’ordine, mentre oggi stupisce che Mosca non raccolga l’invito
di Otunbaeva a intervenire. L’astensione russa, però, spiega molto.
Entrare in Kirghizistan diventare un pantano politico. Meglio attendere
di agire “in gruppo”, riservandosi di reclamare i diritti di sfera
d’influenza su altre questioni, tipo la presenza militare Usa a Manas.
Orietta Moscatelli, giornalista, per sei anni corrispondente da Mosca
del Messaggero, è caporedattrice di “Nuova Europa” dell’Apcom
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