Tempo libero «alla russa»

Già il sabato, con le prime corse semivuote del metrò, noterete torme di strani personaggi che si dirigono fuori città in tuta mimetica, muniti di ampie gerle e delle immancabili sporte di stoffa quadrettata. Una parte di questa gente sciamerà per i boschi alla ricerca di funghi, lamponi, more e altre prelibatezze da conservare in barattolo; una parte, riconoscibile dalle dimensioni maggiori delle sporte a quadretti, si incolonnerà rassegnata in mostruosi ingorghi fino alla dacia dove, dopo una settimana di lavoro massacrante, sarà finalmente libera di spaccarsi la schiena nell’orto, o in tutti quei piccoli lavoretti che una dimora di campagna richiede, che sia il maniero faraonico dei nuovi ricchi o la casetta in legno dei comuni mortali. A tutt’oggi, la dacia, rimane il più grosso e insoluto mistero dell’antropologia russa.

Qualcuno va a caccia, qualcuno a pesca, qualcuno ne approfitta per dedicarsi allo sport preferito, che qui vuol dire praticarlo attivamente all’aria aperta, e non come da noi, seguirlo su SKY. Oppure, dal momento che ogni città possiede la sua brava squadra di calcio o di hockey, ci si può crogiolare sulle tribune sgranocchiando semi di girasole tostati e tifando i propri colori.

Tuttavia, se nessuna delle opzioni proposte incontra la vostra simpatia, non rimane che la più classica delle varianti, la più diffusa e popolare: la scampagnata, ossia riunirsi in un’allegra compagnia, riempire il bagagliaio di una quantità di cibo sufficiente a sfamare per una settimana un reggimento di ussari, e immergersi nella natura alla ricerca di un posticino adatto, operazione che, date le dimensioni smisurate del paese, non presenta soverchie difficoltà. Poi, una volta arrivati, ingannare il tempo conversando con gli amici, giocando a scacchi o nuotando nel fiume, nell’attesa che venga il momento di mangiare e di arrostire gli shashlyki.

Lo shashlyk è il sovrano incontrastato di ogni picnic russo che si rispetti, un piatto della tradizione caucasica consistente in un monumentale spiedino di carne tagliata in grossi pezzi quadri, marinata secondo le ricette più disparate e arrostita sulla brace seguendo un vero e proprio rituale, dalla cui riuscita dipende il successo stesso dell’intera scampagnata. Può essere di montone, di maiale, di manzo, di pollo, ma possono proporvene di pesce e perfino di ortaggi, per i vegetariani. I parchi delle grandi città, specialmente la domenica, sono disseminati di chioschi che arrostiscono all’aperto questi succulenti spiedini e devo dire che l’odore è talmente invitante che si finisco sempre con l’accostarmi, scegliere i pezzi che più mi piacciono e attendere all’interno che venga servito ancora sfrigolante, magari accompagnato dall’eccellente birra russa e dalla lavasha, il pane piatto del Caucaso.

Devo dire che anche a me è capitato di ricevere un invito a un avvenimento del genere, nella regione mineraria del Kuzbass, in Siberia, sulle rive di un laghetto nel bel mezzo della taiga, dove i miei amici avevano noleggiato un cottage con annessa sauna. Nonostante fossimo in pieno inverno con una temperatura di -20°, tutto avvenne con la scrupolosa osservanza di quello stesso rigido protocollo tipico dell’estate, tranne qualche piccola variazione sul tema, cadenzata dai ritmici brindisi a base di vodka, in cui ciascuno si alza e pronuncia un lunghissimo, articolato augurio (tost). Dato fondo a un centinaio di diversi antipasti, fra un bagno di vapore bollente, un boccale di birra e un tuffo in costume da bagno nel prorub’ (una piscina ricavata rompendo lo spesso strato di ghiaccio sulla superficie del lago) dal quale mi sono astenuto senza rimpianti, limitandomi a scattare fotografie per gli scettici, finiti i manty (grossi tortelloni ripieni di carne), spazzolata via una buona parte degli involtini di cavolo (golubzy, anch’essi ripieni di carne e spezie), quando già stavo per alzare bandiera bianca, qualcuno disse che era venuto il momento di cuocere gli shashlyki, impresa peraltro non agevole quando sul terreno c’è un metro di neve.

Poi chissà da dove venne fuori una fisarmonica, poi un organetto, qualcuno aprì le danze, poi chissà come si sparse la voce che nel gruppo si celava un italiano, che in effetti su una sdraio si stava godendo la serata e le stelle scintillanti dell’immenso cielo siberiano, cosa che dovette risuonare alquanto esotica a giudizio degli astanti, tanto che al mio cospetto si fermò una fila di persone che mi invitavano chi a fare un giro sulla slitta, chi sul gatto delle nevi … chi a sparare con la carabina, con una tale sincera generosità che non mi rifiutai a nessuno e così, nel bel mezzo della notte, mezzo assordato dai colpi di fucile e completamente ubriaco, capii che effettivamente la Terra gira. Ed io con lei.

Poi la musica cessò, e venne il tempo dei saluti. Strinsi decine di mani, ricevetti e ricambiai decine di inviti, fin quando arrivò una macchina piena di autisti: visto il tasso alcolico, i miei amici avevano prenotato un ritorno a casa in tutta sicurezza. Mi risvegliai che era già mattina, con un incendio in gola e uno sciame d’api in testa. Slava in cucina sbranava gli ultimi manty ghiacciati della sera prima, sua moglie mi guarda, e devo essere in uno stato orribile se inizia a rimproverarlo. Lui di nascosto tira fuori una fiaschetta d’alluminio e versa una generosa dose di cognac nel mio tè – “Ti aiuterà” mi dice.

Un’ora dopo il Kuzbass Ekspress mi dondola dolcemente verso Novosibirsk. Martedì ho l’esame e il Sibir ha di nuovo perso in casa. In compenso però il mal di testa è passato, affondo nel sedile, guardo gli spruzzi di neve che a raffica si spalmano sul finestrino, chiudo gli occhi, e nel sonno, sorrido.

Simone Corazza è traduttore e interprete vive e lavora a Roma e collabora con il sito di cultura russa www.russianecho.net

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