Sergei Lavrov: “Dal punto di vista psicologico, i nostri partner devono oltrepassare un’importante linea di demarcazione”
Vladímir Solovióv
"Kommersant"
Le relazioni con l’America, i rapporti con l’Europa e la Nato: sono alcuni dei numerosi temi affrontati dal ministro degli Esteri russo nell’intervista rilasciata al giornalista di Kommersant Vladimir Soloviov alla vigilia della visita del presidente Dmitri Medvedev negli Stati Uniti in corso da oggi al 24 giugno.
Vladimir Soloviov: Al summit di Rostov-sul-Don tra Russia e Ue è stato sottolineato che i rapporti tra Mosca e Bruxelles sono d’importanza strategica. Ma quando si comincia a parlare di passi concreti verso l’abolizione dei visti, della preparazione di un accordo base, di “collaborare per l’innovazione”, sorgono delle complicazioni. Perché non si va avanti?
Sergei Lavrov: Non drammatizziamo. Ci sono stati dei passi avanti in tutte le direzioni che Lei ha menzionato e in molte altre ancora. Quanto al nuovo accordo di base, il testo di gran parte delle clausole è già stato concordato e penso che le difficoltà principali ora riguardino l’aspetto economico. Ciò è dovuto soprattutto alla situazione che si è venuta a creare intorno all’entrata della Russia nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc).
I nostri partner europei non vogliono porre le basi dei regimi commerciali in questo accordo senza sapere quando e a quali condizioni la Russia entrerà a far parte dell’Omc. La situazione si chiarirà nel giro di qualche mese, perché sentiamo che i partner che stanno conducendo con noi le trattative per il nostro ingresso nell’Omc, tra cui anche gli americani, hanno interesse ad accelerare questo processo. Sì, già durante l’amministrazione di George Bush ci era stato assicurato che “entro l’anno” si sarebbe fatta ogni cosa, ma poi il tutto si è arenato. Ora abbiamo ragione di sperare che con Barack Obama sarà tutto diverso. Quindi l’accordo di base è soprattutto un problema di natura economica. Credo che presto si sistemerà tutto.
Il lavoro sull’accordo potrebbe concludersi prima del prossimo summit tra la Russia e l’Unione europea in programma per l’autunno?
Non voglio fare promesse immaginarie. Negli ultimi sei anni molti dei nostri rappresentanti hanno dichiarato più volte che mancava poco perché la Russia entrasse nel regime dell’Omc. Ma alla fine è andata come al solito. Preferisco guardare al risultato e non a delle scadenze fissate in modo artificiale.
Per quanto riguarda il regime senza visti, indubbiamente è diventato soprattutto un problema dell’Unione Europea. Non vuole essere affatto una critica ai nostri partner. Ci hanno fatto una serie di domande su come sia regolamentato il soggiorno degli stranieri nel nostro paese e su quali misure intendiamo prendere per evitare che il regime senza visti venga sfruttato da criminali. Abbiamo risposto in modo esauriente a tutte le domande. Inoltre, al summit di Rostov-sul-Don abbiamo presentato all’Ue una bozza d’accordo sui parametri del regime senza visti in cui sono elencati gli obblighi reciproci per l’applicazione di tale regime ai cittadini della Russia e dell’Ue. Adesso la parola spetta ai nostri partner. Mi sembra che con questo passo abbiamo favorito il salto alla fase successiva delle trattative. Le questioni tecniche sono già state chiarite, e gli esperti europei lo hanno riconosciuto. Ora serve una decisione politica.
Le autorità russe hanno dichiarato di essere pronte a passare anche subito al regime senza visti con l’Ue. Forse allora varrebbe la pena di farlo unilateralmente in modo da spronare ancor più gli europei?
Nei rapporti internazionali preferiamo attenerci al principio della reciprocità che è alla base di tutte le convenzioni fondamentali che regolano i rapporti tra gli stati. So di Paesi che applicano un certo regime - per gli ingressi o altri ambiti - in maniera unilaterale, ma in questo caso mi sembra giusto contare sulla reciprocità in tempi brevi. Tanto più che l’Ue ha già abolito i visti con una trentina di Paesi, alcuni dei quali hanno problemi di criminalità sono in una situazione peggiori rispetto alla Russia. Quindi non voglio fingermi pessimista, ma non voglio neanche essere troppo ottimista. All’interno dell’Ue ci sono alcuni paesi che per ragioni storiche politicamente non sono ancora pronti a questo passo.
Hanno paura di qualcosa?
Non saprei. Secondo le informazioni che mi vengono riferite, certi Paesi dicono: “Si potrebbe anche fare, ma perché dovremmo farlo senza alcuna ricompensa? In cambio vogliamo ottenere qualcosa dalla Russia in qualche altro ambito”. Non condivido questo approccio, perché non è del tutto corretto. In fin dei conti, ne guadagneremmo sia noi che i cittadini dell’Ue, perché anche loro hanno interesse a viaggiare in Russia più liberamente.
A proposito di azioni concrete, voglio ricordare un’altra importante bozza d’accordo: quella sulla collaborazione con l’Ue per la pacificazione delle situazioni di crisi. Le trattative su questo tema sono in corso da più di due anni. A suo tempo la Russia firmò con Javier Solana un memorandum d’adesione all’operazione allora promossa dall’Ue nel Ciad e nella Repubblica Centrafricana. Ora abbiamo consegnato una bozza di accordo che speriamo possa contribuire ad accelerare questo processo.
Inoltre, subito dopo il summit di Rostov-sul-Don, si è tenuto un summit tra Russia e Germania. In occasione di questo incontro, Dmitri Medvedev e Angela Merkel hanno firmato un’importante dichiarazione di intenti per la creazione di un comitato russo-europeo sulle questioni di politica estera e di sicurezza che potrebbe occuparsi tra l’altro di elaborare iniziative congiunte per la pacificazione delle situazioni di crisi. La cancelliera tedesca ha promesso di portare l’iniziativa a Bruxelles e di promuoverne l’approvazione da parte di tutti i Paesi dell’Unione Europea.
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Sulle relazioni con la Nato
Si può dire che, se un comitato simile fosse esistito prima dell’agosto 2008, forse il conflitto con la Georgia si sarebbe potuto evitare?
Per me è impossibile immaginare ora, a posteriori, che cosa avrebbe potuto influenzare lo stato psicologico, e non solo, del presidente georgiano Mikheil Saakashvili quando diede il suo ordine criminale. Certo, avere un comitato simile non sarebbe stato male. Ma non dobbiamo dimenticare che in quel momento esisteva ed era in funzione un Consiglio Russia-Nato con dei meccanismi ben rodati per la gestione urgente delle situazioni di crisi. Ma quando, nell’infuriare della guerra scatenata da Saakashvili, proponemmo di indire una riunione d’urgenza del Consiglio, i nostri partner si rifiutarono. E sappiamo per certo che la riunione fu osteggiata soprattutto dall’amministrazione Bush.
C’è anche l’Organizzazione per la sicurezza e cooperazione europea (Osce), presso la quale esiste un centro per la prevenzione dei conflitti e un Consiglio permanente. A quest’organo sarebbero dovuti arrivare i rapporti inviati dagli osservatori dell’Osce prima dell’inizio delle operazioni militari. E i rapporti dicevano che si stavano preparando queste operazioni. Ma per qualche motivo i rapporti non arrivarono mai al Consiglio permanente, principale organismo intergovernativo. L’esistenza del comitato russo-europeo sarebbe stata utile, ma d’altro canto esistevano già dei meccanismi all’interno della Nato e dell’Osce che però non vennero attivati.
Si ha l’impressione che l’idea di creare un comitato anticrisi insieme all’Ue nasca da un tentativo di creare una nuova forma di cooperazione. Qual è il modello di rapporti con Bruxelles a cui Mosca aspira? Si dice che l’entrata della Federazione Russa nell’Unione Europea sia fantascienza. Mosca ritiene umiliante partecipare a iniziative del genere del “Partenariato orientale”. Cosa serve in fin dei conti?
Una collaborazione paritaria. Il problema è lo stesso anche nelle relazioni con la Nato. Il Consiglio Russia-Nato per il suo status formale è una struttura molto avanzata istituita sulla base di accordi approvati ad alto livello che prevedono che ciascuno dei Paesi membri faccia parte di quest’organismo in quanto nazione e su base paritaria. Vero è che nella pratica ciò non accade. I nostri partner della Nato concordano una posizione comune e poi espongono tutti la stessa linea con delle piccole variazioni. Stiamo cercando di cambiare questa situazione. Dal punto di vista psicologico, i nostri partner devono oltrepassare un’importante linea di demarcazione.
Nelle relazioni con l’Ue non esiste nemmeno questa struttura paritaria. Non c’è un meccanismo che, almeno sulla carta, proponga il principio “un paese - una voce”. Esiste però una rete di dialoghi assai sviluppata. Per molti anni abbiamo proposto all’Ue di creare qualcosa di simile al Consiglio Russia-Nato, ma non per scambiarci semplicemente valutazioni ed elaborare raccomandazioni, bensì per adottare risoluzioni. L’iniziativa di cui si è parlato a Meseberg, in Germania, va in questa direzione. Il comitato, nelle idee dei promotori, dovrà avere il potere di prendere decisioni pratiche per la conciliazione di situazioni di crisi, vale a dire per la pacificazione. Come funzionerà nella pratica, non lo so. Dobbiamo attendere le reazioni degli altri membri dell’Ue. Bisogna anche pensare a come strutturare il funzionamento di questo comitato e di quali poteri dotarlo. In ogni caso, abbiamo già fatto un passo avanti nella direzione che ci sembra giusta.
Lei ha detto che i partner della Nato devono oltrepassare un certo confine psicologico. E la Russia l’ha oltrepassato? Nella nuova dottrina militare della Russia, la Nato è descritta come il principale pericolo esterno. A Mosca si pensa davvero che nella testa dei funzionari Nato stiano maturando dei piani di aggressione?
Non attinga informazioni sulla nostra dottrina militare dalle valutazioni che ne dà la Nato. Abbiamo discusso più volte questo tema anche con il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen e con altri membri dell’Alleanza. Con il Segretario generale ne abbiamo discusso a Monaco all’inizio dell’anno nell’ambito della conferenza annuale sulla sicurezza. Rasmussen ci ha domandato: “Perché la vostra dottrina militare include la Nato nel novero delle minacce per la sicurezza della Russia?”. E io, dottrina alla mano, gli ho spiegato che c’è scritto tutt’altro. Innanzitutto, non si tratta di una minaccia, come ha detto Rasmussen, ma di un pericolo. E in secondo luogo, tra i pericoli elencati non vi è la Nato in quanto tale, ma altro.
Nella dottrina si dice che, tra i pericoli che la Russia intravede, c’è l’aspirazione della Nato a proiettare la propria potenza militare in qualsiasi area del mondo a dispetto del diritto internazionale. È una formulazione assai precisa che rispecchia le discussioni in corso alla Nato sulle modalità di applicazione dell’articolo 5 del Trattato di Washington che prevede la difesa collettiva. Inoltre, e ne ha parlato pubblicamente lo stesso Rasmussen, la difesa territoriale dell’Alleanza comincia ben prima dei suoi confini. E infine, elencando i partner che collaborano nella sfera della sicurezza, i membri della Nato nominano anche l’Onu come un partner da poter consultare. Ma quando si parla dell’uso della forza, le consultazioni non sono la formula da applicare nei confronti dell’Onu. Lo statuto dell’Onu stabilisce che si può usare la forza solo in due casi: se si viene aggrediti, cioè avvalendosi del diritto all’autodifesa, oppure se l’uso della forza è stato sancito dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma i documenti della Nato non ne tengono conto e questo naturalmente può avere un grave effetto destabilizzante sulla situazione internazionale, cosa che noi non vogliamo. Saremmo provocati e tentati di dire: se la Nato può, perché noi no? La seconda menzione della Nato tra i pericoli per la Russia è dovuta al fatto che la sua infrastruttura militare si sta avvicinando ai nostri confini, anche in conseguenza dell’allargamento dell’Alleanza.
Non si può dire insomma che la Nato nel suo complesso, come struttura politico-militare, rappresenti una minaccia per noi. Capiamo che la Nato è una realtà che non può scomparire. E la proposta di un nuovo accordo sulla sicurezza europea, che stiamo promuovendo su iniziativa del presidente Dmitri Medvedev, non presuppone lo scioglimento della Nato. Ma per noi è importante comprendere in che direzione si stia evolvendo la Nato. E se si evolve nella direzione di cui ho parlato prima, non va bene. È uno svilimento del diritto internazionale. Sono convinto che ne seguirebbe una reazione a catena, e ciò sarebbe molto pericoloso.
Perché accade questo, dal suo punto di vista? Sembrerebbe che negli ultimi anni l’atmosfera e le relazioni tra la Russia e l’Occidente in generale siano migliorate. Eppure, tutti i problemi che lei ha elencato rivelano una mancanza di fiducia.
Non voglio drammatizzare. Stiamo cercando di cambiare, e mi sembra che ci stiamo riuscendo. Mi accorgo che anche gli altri stanno cercando di guardare le cose senza pregiudizi. E Anders Fogh Rasmussen è proprio questo tipo di politico, anche se proprio per questo non piace a tutti nella Nato. È già un bene che le domande che Lei mi sta ponendo riguardano argomenti che noi discutiamo apertamente con i membri della Nato.
Noi abbiamo espresso chiaramente le nostre preoccupazioni. Una di queste riguarda il fatto che non riteniamo giusto che all’interno della Nato i membri siano pronti a garantire giuridicamente la sicurezza di tutti i paesi dell’Alleanza, mentre al di fuori di essa non vogliano dare le stesse garanzie. Non c’è alcuna giustificazione per questo, benché negli anni Novanta i Presidenti di tutti i paesi dell’Osce dichiarassero che nessuno di loro avrebbe difeso la propria sicurezza a scapito della sicurezza degli altri. Se questo è vero, trasformiamo queste dichiarazioni politiche in documenti giuridicamente vincolanti e mettiamo sullo stesso piano di diritto la sicurezza di tutti i Paesi dello spazio euro-atlantico.
E cosa le rispondono?
Rispondono che non è necessario produrre nuovi documenti. Dicono che non bisogna creare niente di nuovo. Ma non è quello che vogliamo! Non stiamo attentando ai documenti statutari della Nato, dell’Osce, del Csto o della Csi. Stiamo soltanto dicendo: facciamo ciò di cui hanno parlato i presidenti e i premier, realizziamo un documento che abbia valenza giuridica. La risposta che contiamo di ottenere farà capire se i nostri partner negli anni Novanta erano sinceri o se le loro erano solo esortazioni per far sentire la Russia di quegli anni rispettata.
Forse si potrebbero spiazzare i partner con un approccio radicale: prendere ed entrare nella Nato. E cominciare a giocare con le regole che loro stessi hanno creato.
Innanzitutto, nonostante le saltuarie dichiarazioni dei Paesi occidentali in questo senso, nessuno ci ha invitato a entrare nella Nato.
E se ve lo chiedessero?
Non ce lo chiederanno. Non riesco a immaginarmi come andrebbe. Dovremmo approvare un piano di azioni per diventare membri, rendere conto alla Nato del nostro operato, andare lì e metterci in fila. Questo scenario, pur essendo affascinante per appassionate discussioni, non è realistico. E non ci aiuta dal punto di vista dell’utilità pratica e dei problemi pratici che tutti cerchiamo di risolvere. I nostri rapporti con la Nato sono molto avanzati. Se seguiremo i principi su cui si fonda il Consiglio Russia-Nato saremo in grado di raggiungere anche gli obiettivi più complessi.
Se diamo un’occhiata al programma dei lavori del Consiglio Russia-Nato, vediamo che si tratta di un’enorme quantità di provvedimenti che passano quasi inosservati, perché non hanno una particolare rilevanza mediatica, ma sono piuttosto di natura tecnica. Essi riguardano però temi quali la cooperazione militare e la lotta al terrorismo. Dopo le bombe esplose nel metrò di Mosca, abbiamo attirato l’attenzione dei nostri governanti e dei nostri partner sul fatto che già da un paio d’anni stiamo elaborando un progetto congiunto con la Nato, basato sulle invenzioni di alcuni scienziati di San Pietroburgo, per la creare un apparecchio in grado di rivelare quantità anche minime di esplosivo plastico (sino a due centigrammi). Non si tratta di un metal detector a portale, ma di un apparecchio che passa inosservato. Tra qualche anno contiamo di poter testare quest’invenzione sul campo.
Oppure consideriamo, ad esempio, il sistema di difesa antimissilistica. Quando ancora non esistevano i piani dell’amministrazione Bush per la creazione del sistema globale di difesa antimissilistica che ci ha fatto sorgere seri interrogativi, stavamo portando avanti con successo un progetto congiunto con la Nato per l’elaborazione di una difesa antimissilistica nei teatri delle azioni militari destinata soprattutto alla difesa dei contingenti di pace. Il progetto era stato praticamente realizzato, ma la sua messa in atto venne congelata perché cominciarono i colloqui per la creazione di una terza area di posizionamento del sistema antimissilistico Usa in Europa.
Successivamente l’amministrazione Obama ha rinunciato a questi piani, ma propose un’alternativa che adesso è in fase di realizzazione e che noi stiamo ancora analizzando. L’alternativa prevede che questo sistema, che attualmente non è di natura strategica, possa diventarlo entro il 2018-2020. Per questo per noi è importante capire come ciò si possa conciliare con la stabilità strategica e con i nostri rapporti con gli Usa nell’ambito delle armi strategiche di offesa. È importante che l’anno scorso a Mosca Barack Obama e Dmitri Medvedev abbiano firmato un documento sulla cooperazione nello studio delle minacce missilistiche. Le relative consultazioni sono già iniziate e andranno avanti. Ma ci preoccupa il fatto che, mentre si studia la provenienza delle minacce, si stia realizzando in parallelo un programma per la messa in atto della prima fase di un nuovo sistema globale di difesa antimissilistica con la partecipazione della Bulgaria e della Romania, che non tiene conto dei risultati di questa analisi.
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Sulle relazioni con gli Usa
È passato un anno ormai. Si potrebbero presentare i risultati di questa analisi.
La conclusione dei lavori è rallentata dai contatti bilaterali in atto tra gli Usa e alcuni singoli Paesi e basati su un’analisi condotta dagli Usa. Per lo stesso motivo si è arenata anche la discussione sul sistema di difesa antimissilistica della Nato. E se tutto questo porterà gli americani a formulare una loro proposta, se essa verrà accettata dalla Nato e a noi diranno “ora inseritevi in questo processo”, non si tratterà di quello che avevano concordato Medvedev e Obama. Vorremmo che fosse preso in considerazione anche il nostro potenziale intellettuale, perché anche noi abbiamo qualcosa da dire.
Quindi le possibilità di un sistema congiunto di difesa antimissilistica in Europa sono ancora vaghe?
Non ci siamo ancora messi d’accordo su questo aspetto e stiamo cercando di capire fino a che punto siano compatibili gli accordi tra i due Presidenti sull’analisi congiunta con le azioni che gli Usa stanno già mettendo in atto sulla base di loro valutazioni unilaterali.
Ci sarà presto occasione di capirlo: questo mese il presidente Medvedev si recherà negli Usa.
Assolutamente. Sarà uno dei temi del colloquio e ci aspettiamo molto da questo summit. I rapporti tra i due Presidenti danno il “la” al lavoro di tutti gli altri protagonisti delle relazioni russo-americane. Io e Hillary Clinton terremo un rapporto sul bilancio dei lavori della commissione presidenziale alla quale si è già aggiunto il 17° gruppo di lavoro: l’annuncio ufficiale sarà dato nel corso del summit. Ma l’obiettivo principale è quello di dar corpo concretamente all’aspetto economico della nostra cooperazione, innanzitutto nella sfera delle innovazioni. Non è un caso che la visita inizierà con un viaggio informale in California, dove il presidente russo intende visitare alcune imprese della Silicon Valley e parlare con quanti si occupano di nuove tecnologie.
La firma dell’accordo con gli Usa sulla riduzione delle armi strategiche offensive rappresenta un passo simbolico, la prima vera conferma di un cambiamento nei rapporti. Quale sarà il prossimo passo? Cos’altro può avvicinare Mosca e Washington oltre agli sforzi comuni per la non proliferazione nucleare? Dobbiamo aspettarci un’apertura riguardo all’abolizione dell’emendamento Jackson-Vanik e all’ingresso della Russia nell’Omc?
Il termine “riavvio” è stato introdotto dagli americani. Noi lo abbiamo interpretato come un segno da parte dell’amministrazione di Obama che aveva capito che bisognava farla finita con la politica condotta dai suoi predecessori. In questo senso ci accorgiamo che i dirigenti dell’amministrazione hanno sicuramente “riavviato”. L’atmosfera è cambiata e, a differenza di quanto avveniva in passato, gli ottimi rapporti personali tra i due leader si traducono in azioni concrete. Anche con Bush i rapporti personali erano buoni, ma chissà perché questo clima non coinvolgeva gli altri livelli dell’amministrazione.
Per quanto riguarda l’Omc, come ho già detto, ci sembra che l’amministrazione americana ora abbia la precisa intenzione di risolvere da parte sua tutti i problemi legati all’entrata definitiva della Russia. E noi siamo pronti a fare la nostra parte. L’emendamento Jackson-Vanik è solo un problema di Washington e noi abbiamo smesso di chiederne l’abrogazione. Perché ciascun nuovo Presidente promette di abrogarlo.
Qual è il problema?
È una conseguenza della peculiarità del sistema politico degli Usa dove ogni membro del Congresso ha bisogno di consensi nel proprio distretto e quindi un senatore il cui distretto ad esempio produce pollame mette in relazione l’abolizione dell’emendamento con l’acquisto della carne da parte della Russia. E così via. Si possono porre infinite condizioni a una legge che ormai è diventata uno sberleffo al buon senso. Non è un problema nostro.
Spero che la ragione avrà la meglio e che avremo un normale regime di scambi commerciali con gli Usa e che non dovremo vedere ogni anno il Presidente americano di turno doversi avvalere del diritto di non applicare l’emendamento. Anche se non viene applicato costituisce un intralcio è un problema psicologico del sistema. Il problema è l’incapacità del sistema politico americano di mettere in atto le sue stesse leggi. L’emendamento fu introdotto per facilitare l’emigrazione degli ebrei sovietici dall’Urss. Quelli che volevano sono emigrati. Metà di loro sono già tornati per propria scelta, ma l’emendamento è ancora lì.
Voglio però sottolineare che agli Usa non ci accomunano soltanto i problemi del disarmo. Ho già ricordato la necessità di dare un consistente impulso agli aspetti economici. È la base principale delle nostre relazioni e abbiamo grandi progetti. Alla fine di maggio rappresentanti delle più innovative aziende statunitensi hanno visitato la Russia e sono ripartiti con un rinnovato entusiasmo. Stanno preparando dei progetti concreti per la visita del presidente Medvedev negli Usa.
Anche le nostre aziende stanno preparando proposte serie che potranno diventare progetti comuni. Spero che il lavoro avanzerà rapidamente e che quello dell’innovazione sarà uno dei fattori determinanti nei nostri rapporti. Uno di questi progetti è la costruzione di un nuovo grande aereo da trasporto. Solo la Russia e gli Usa producono questo tipo di aeromobili. Ora gli americani stanno esaurendo le scorte degli apparecchi in uso finora, e noi abbiamo la necessità di modernizzare il nostro AN-124.
E l’accordo sul nucleare civile?
Sì, anche questo è stato fatto dall’amministrazione Obama nell’ambito del “riavvio”. L’accordo sul nucleare civile che era passato al Senato per la ratifica e poi è stato ritirato ora è di nuovo al senato. È un passo importante. Anche l’aspetto culturale ha una grande importanza per i contatti tra le popolazioni. Noi, per esempio, per lo sviluppo di questi contatti abbiamo fatto la seguente proposta: è in vigore un accordo per cui gli abitanti indigeni della Chukotka e dell’Alaska godono di un regime senza visti per viaggiare tra i due paesi. Noi abbiamo proposto di applicare il regime senza visti a tutti gli abitanti di queste regioni e siamo in attesa della reazione americana. Speriamo che sia positiva.
Ha idea di come dovrebbero essere i rapporti con gli USA per evitare l’effetto “montagne russe” per cui ora precipitano, ora schizzano in alto? È possibile, ad esempio, raggiungere un livello simile a quello dei rapporti con la Francia o con la Germania?
Ciascun paese ha la propria identità e le proprie tradizioni politiche. Le tradizioni degli Usa sono profondamente diverse da quelle europee. Gli stessi rapporti tra il potere esecutivo e quello legislativo non assomigliano a quelli di nessun altro Paese e permettono ai legislatori di influenzare profondamente l’operato dell’amministrazione, creando talvolta degli attriti.
Cosa fare per evitare questi sbalzi? Mantenere la parola data, attenersi agli accordi, cercare di non lasciarsi andare ai tentativi di mettere l’altro fuori rotta, cosa che può succedere da una parte e dall’altra e mantenere i rapporti su una base paritaria. In questo senso voglio sottolineare ancora una volta il significato politico, psicologico e giuridico dell’accordo per la riduzione degli armamenti. È stato stipulato su principi paritetici ed è proprio questo l’approccio che intendiamo promuovere nelle relazioni con gli Usa. Come vediamo, questo approccio è appoggiato anche dal presidente Obama.
In occasione del summit russo-americano è in programma la firma di qualche specifico accordo?
Stiamo preparando delle proposte, poi saranno i Presidenti a decidere.
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Sul conflitto con la Georgia
Passiamo alle frontiere della Russia. Dopo l’agosto 2008 la Russia da parte sua considera risolti i conflitti che si sono svolti in territorio georgiano. Eppure in questo senso essa si trova in minoranza. Mosca continuerà a convivere con questa situazione? Questo status quo è destinato a durare per sempre?
Per noi la questione è risolta in maniera definitiva e irrevocabile. Mi prendo la responsabilità di dirlo anche per gli altri Paesi che, per ragioni di correttezza politica o per altre ragioni di natura politica, non possono riconoscerlo ufficialmente. Ho detto più volte che non si è trattato di una nostra scelta e che tutte le lamentele, se qualcuno ne ha ancora, sono da rivolgere a Mikheil Saakashvili che calpestò l’integrità territoriale della Georgia. La Russia, prima che egli desse l’ordine criminale di uccidere le nostre forze di pace e i civili dell’Ossezia del Sud, aveva cercato di aiutarlo ad appianare i conflitti in Abcasia e in Ossezia del Sud. Fu lui a stroncare questi tentativi.
Recentemente lei ha dichiarato che, persino dopo la fase militare del conflitto dell’agosto, la Georgia poteva evitare di perdere questi territori.
Quando fu raggiunto l’obiettivo delle operazioni volte a fermare l’aggressione e il presidente della Russia diede ordine di fermare l’azione militare, fu concordato il piano Medvedev-Sarkozy che poneva le basi delle azioni successive. Il sesto punto dell’accordo verteva sulla necessità di avviare dei colloqui internazionali per definire lo status dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud e per garantire la loro sicurezza. Noi lo firmammo. Quindi il 12 agosto 2008, il giorno in cui si concluse l’operazione militare, il presidente russo concordò che lo status di queste regioni doveva essere discusso in sede internazionale.
Dunque la Russia non si apprestava a riconoscere l’indipendenza di queste Repubbliche?
Noi non avevamo alcun intento di natura geopolitica. Pensavamo a fermare l’uccisione dei nostri cittadini e degli abitanti dell’Ossezia del Sud. Appena riuscimmo a tirare il fiato ci trovammo nella cornice politica di cui ho detto. Lo stesso giorno della fine delle azioni militari eravamo pronti a continuare le discussioni sullo status dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud. Il documento fu approvato. Il presidente francese Nicolas Sarkozy lo portò a Tbilisi. Poi mi telefonò e mi disse che Saakashvili era categoricamente contrario alla discussione dello status di queste repubbliche, che per lui il loro status era chiaro e che questa frase andava espunta. Acconsentimmo.
A tale proposito, Saakashvili manipolò anche altre parti del piano Medvedev-Sarkozy, perché i sei punti erano preceduti da un testo introduttivo che diceva: “I presidenti della Russia e della Francia approvano i seguenti principi ed esortano le parti a rispettarli”. Saakashvili nel documento che alla fine accettò di firmare non solo eliminò la frase sullo status dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, ma cancellò anche la parte introduttiva e adesso sostiene che il documento esorti anche la Russia a porre fine ad alcune cose. La parte introduttiva invece diceva apertamente che i due Presidenti esortavano le parti a fare questo e quello. È per questo che si chiama piano Medvedev-Sarkozy.
Ma allora le accuse che sono state rivolte alla Russia perché non avrebbe rispettato le condizioni dettate dal piano sul ritiro delle truppe e sul ritorno alle posizioni di prima del conflitto?
Le truppe che intervennero per contrastare l’attacco in Ossezia del Sud si ritirarono in territorio russo. Nel frattempo erano naufragate le discussioni sullo status e da Tbilisi cominciarono ad arrivare dichiarazioni revansciste secondo cui la guerra non era finita. Pertanto, alla fine di agosto, si decise che non vi era altro modo di garantire la sicurezza e la sopravvivenza degli abitanti dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud se non quello di riconoscere la loro indipendenza. Le truppe russe che si trovano adesso in Ossezia del Sud e in Abcasia sono lì su una diversa base giuridica: sulla base degli accordi tra la Russia e i due Stati da essa riconosciuti. Il piano Medvedev-Sarkozy per questa parte è stato attuato dalla Russia.
Tra l’altro, quanti dicono che dobbiamo ritornare ai confini dell’8 agosto dimenticano che già prima di quella data le nostre truppe si trovavano ben più all’interno nel territorio georgiano, perché le forze di pace non erano solo nell’Ossezia del Sud, che allora faceva parte della Georgia, ma anche oltre i suoi confini. La stessa cosa valeva per l’Abcasia. Pertanto, se si vuole che ci spostiamo oltre i confini dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia e che torniamo sulla linea dove si trovavano le nostre forze di pace per garantire la sicurezza prima dell’8 agosto 2008, sarei molto grato se ci venisse chiesto apertamente.