Al centro, il coreografo russo, naturalizzato americano, George Balanchine sistema l'acconciatura a una giovanissima Carla Fracci (Foto: Erio Piccagliani / Teatro alla Scala)
A trent’anni dalla morte di George Balanchine (scomparso a New York il 30 aprile 1983), un ritratto ammirato e commosso del coreografo di origine russa che segnò il balletto del Novecento viene dalle parole di Carla Fracci.
Incontrata nella sua casa milanese non lontana dal Teatro alla Scala, la nostra leggendaria ballerina è un fiume di ricordi, rilanciati dall’inseparabile marito regista Beppe Menegatti, con il quale ho condiviso una vita di successi internazionali.
Come ricorda il suo primo incontro con
Balanchine?
Fu
uno dei grandi incontri della vita, perché Balanchine determinò la mia strada,
forse più di chiunque altro, e per me è stato sempre un punto di riferimento. Venne
alla Scala nel 1953: quell’anno ero ancora alla Scuola di ballo, frequentavo l’ultimo
corso, ed egli mi scelse per un ruolo solistico in Ballet Imperial: un clamoroso onore. Il nostro incontro artistico
resta fissato in quella tenerissima fotografia – che scoprii nell’Archivio
della Scala solo molti anni dopo e che oggi è tra le immagini a me più care –
in cui, poco prima di andare in scena, dietro le quinte, Balanchine mi sistema
l’acconciatura.
Come le apparve allora la personalità
dell’uomo e dell’artista Balanchine?
È
noto che avesse la reputazione di esercitare un grande fascino sulle donne,
perché era nello stesso tempo esigentissimo e di una squisitezza assoluta,
autorità e gentilezza maschile si incontravano in lui. La sua attenzione faceva
palpitare il cuore, ma era un onesto seduttore, perché sceglieva sempre persone
di grande valore. Meravigliose stelle del balletto furono sue muse, compagne o
spose; alcune russe, come Tamara Geva, sua prima moglie, e Aleksandra Danilova:
entrambe lasciarono con lui la Russia per l’Europa nel 1924. E poi Vera Zorina,
Maria Tallchief, Tanaquil LeClercq, sua moglie quando conobbi Balanchine, e
l’ultima musa, la giovane e bellissima Suzanne Farrell, che un giorno si
presentò inaspettatamente a casa nostra a Milano con in regalo un piccolo
samovar! A parecchie di loro fui molto legata, tanto che io e mio marito
abbiamo il progetto di uno spettacolo Le
otto mogli di Balanchine: forse un giorno lo faremo, anche se sarà davvero
difficile trovare Mr. B. (suo soprannome
americano, ndr)!
Il coreografo russo, naturalizzato americano, George Balanchine al Teatro alla Scala di Milano (Foto: Erio Piccagliani / Teatro alla Scala)
Come continuò il vostro legame artistico?
In
conseguenza della scelta di questo grande, immenso maestro, fui selezionata per danzare
alla Scala il secondo atto del Lago dei
cigni, che Balanchine rimise in scena estrapolato dall’intero balletto, con
varianti coreografiche sull’originale. Quell’interpretazione
mi aprì le porte degli Stati Uniti, perché dopo averlo danzato varie volte in Italia
fui invitata a ballarlo a New York. Ci fu una ripresa televisiva e venni eletta
“donna dell’anno della danza”. Allora Mr. B. mi chiese di entrare nella sua
compagnia, il New York City Ballet. Forse in quel momento ebbi un paura e non accettai: credo di avergli
dato un piccolo dispiacere, perché quando lo ricordava aveva sempre un tono un
po’ ironico, benché tenerissimo. Da allora però il legame con lui fu continuo e
non si spezzò fino alla sua morte.
In che occasioni vi incontravate?
Quando
soggiornavo a New York ero ospite, con mio marito e nostro figlio, di un caro
amico, in un palazzo sulla 79a Broadway. Proprio dove abitava
Tanaquil LeClercq, che divenne una delle mie migliori amiche. Ci legava anche
l’amore per Mourka, il meraviglioso gatto danzante di Balanchine, del quale lei
scrisse l’autobiografia. Frequentai Tanaquil fino alla fine, perché venne
colpita dalla poliomielite e dovette smettere di ballare. Mio marito ancora
ricorda quando, dopo uno spettacolo a Firenze per il Maggio musicale,
all’uscita degli artisti vide Balanchine chiamare affannosamente un taxi:
sorreggeva la moglie che dopo una recita dal successo clamoroso manifestava i
primi sintomi di quella terribile malattia.
Il coreografo russo, naturalizzato americano, George Balanchine al Teatro alla Scala di Milano (Foto: Erio Piccagliani / Teatro alla Scala)
Che altri balletti di Balanchine furono
importanti nella sua carriera?
Ne
danzai molti: Concerto Barocco, Serenade, Symphony in C, Raymonda
Variations. Anche The Four
Temperaments, a cui Balanchine teneva moltissimo, perché con esso aveva
inventato il balletto moderno. Al Teatro dell’Opera di Roma, da direttrice,
rimontai negli allestimenti originali due suoi titoli del periodo con Djagilev:
La Chatte, balletto di grande classe,
e Apollon Musagète, l’ortodossia della
danza del Novecento.
Come ricorda oggi Balanchine?
Era
un elfo, ma potente. Quando si incontrava, Balanchine poneva a bruciapelo delle
domande, belle, sempre belle, non per mettere in difficoltà, ma perché voleva
capire chi aveva dinnanzi. Di lui si sapeva quanto fosse esigente, tutti lo
temevano, ma aveva il fascino e la statura del vero, grande maestro, perché
sapeva modellare le sue idee morali e coreografiche, senza perdere nulla, sulle qualità delle persone. Speriamo
che i teatri non dimentichino questo anniversario. Balanchine è il Novecento e a
tutt’oggi il futuro della danza: non è possibile entrarvi senza essere educati
dal suo genio immane, immortale.
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