L'anomalia poetica di Marina Cvetaeva

Marina Cvetaeva con il marito e i figli a Praga (Foto: Getty Images / Fotobank)

Marina Cvetaeva con il marito e i figli a Praga (Foto: Getty Images / Fotobank)

Una guida alla lettura della più grande poetessa russa del Novecento

"Solo non stare così tetro,

la testa chinata sul petto.

Con leggerezza pensami,

Con leggerezza dimenticami"

Marina Cvetaeva. Uno tra i più grandi nomi della poesia del Novecento che possiamo trovare nelle librerie di tutto il mondo. Eppure ci ho messo un bel po' perché la sua poesia mi piacesse. E, tuttavia, non sempre posso dire di amarla. Mi ritrovo nel suo modo di essere sincera e nello stesso tempo c'è qualcosa che mi disturba. Quella di Cvetaeva è una voce insolita nella poesia russa: essenziale, diretta, spezzata, incisiva. Tagliente e fiera in un'orgogliosa solitudine contro tutti e tutto! Mai un cedimento o un dubbio. Una voce alta, vibrante, travolgente, impetuosa. Una poesia poco femminile (questo per quelli che tendono a classificare la poesia come femminile, maschile, sociale, d'amore, di protesta etc.) Una poesia a chiare lettere. Squillante. Tempestosa. A tratti sprezzante. Ma non ricordo la compassione, il perdono, la comprensione, l'amore?

Posso dire che non ho ancora capito se c'è dell'amore nella poesia di Cvetaeva. Sofferenza sì, tanta: gridata, accusatoria, detta con parole diverse, sillabata. Ho sempre pensato che un poeta scrive se stesso. Deve, necessariamente. Solo così arriva al cuore del lettore. Uno che bara in poesia non commuove, non tocca. Ecco, lei si apriva agli occhi del lettore come una ferita profonda. Con tutto il dolore del mondo e della solitudine. Poiché un poeta è condannato a priori alla solitudine più dolente. E poi c'era la storia della discendenza polacca!  Oh, gli slavi conoscono bene il proverbiale orgoglio polacco! Lei stessa ne andava fiera, e c'era anche la discendenza tedesca e la rigidità della disciplina in cui crebbe. In un crescente  wagneriano. E nel bisogno d'amore. Nella solitudine di una lotta espressa in sillabe, in versi spezzati, frantumati, come note di una composizione musicale, frantumata anch'essa.

[...]

Nostalgia della patria! Da tempo

smascherata molestia!

Per me assolutamente fa lo stesso

dove - assolutamente sola

[...]

Ogni casa mi è straniera, ogni tempio vuoto,

e tutto fa lo stesso e tutto - è uguale.

Ma se lungo la strada un arbusto

appare, specialmente un sorbo...

Nasce a Mosca il 26 settembre 1892. La madre, discendente da una famiglia tedesco - polacca, già allieva di Rubinstein, le insegnò una ferrea disciplina e un bisogno quotidiano della musica: credo che la musica le fu insegnata, da una madre dispotica, come una necessaria presenza, un'inscindibile componente, come un suono vitale, come un orologio che scandisce il tempo della vita e della poesia. L'amore per la poesia e la parte lirica di Marina le veniva dalla madre, come scrisse lei stessa in una breve e asciutta autobiografia. Oltre ad essere un'appassionata musicista, la madre componeva anche dei versi e li leggeva a Marina. Marina compose le sue prime poesie all'età di sei - sette anni. Suo padre, un noto filologo e critico d'arte, nonché professore dell'Università di Mosca, fondò il Museo delle belle arti (in seguito Museo Pushkin).

 
Cvetaeva, una parola pura
nel dolore del mondo

Dunque, ella crebbe in una famiglia dell'intellighenzia moscovita, tra le frequentazioni di poeti , letterati e musicisti.  A sei anni Marina conosceva già il tedesco e il francese. Componeva in tutte e tre lingue. Musica, lingue, ritmo, rime, esercizi, disciplina - tutto questo la condusse al perfezionismo. In poesia. Le rimaneva poco tempo per il gioco e l'immaginazione; doveva dare il meglio di sé, in ogni circostanza e in ogni verso. Ci s'impegnava, credo, perché non si sentiva amata dalla madre che le preferiva la sorella più piccola. Da adulta ebbe una vita difficile in un periodo difficile e tragico per la Russia. Lei stessa era e rimane una figura tragica della poesia, si potrebbe dire più greca per il senso della tragedia che le fu proprio, che russa.

[...]

Sapeste voi,

vicini e lontani,

come della testa

mia propria ho pena -

 

del Dio nell'orda!

Steppa - casamatta -

il paradiso è dove

non parlano!

 

Donnaiolo - animale,

bottegaio - proprietà!

Per me sarà un Dio

chi mi darà

 

( Non perder tempo!

I giorni sono contati!)

Per un po' di silenzio -

quattro pareti.

Dall'inizio della rivoluzione fino al 1922 visse a Mosca. Nel 1922  emigrò all'estero dove rimase per un periodo di 17 anni. Berlino, Praga, Parigi.  Tornò in Russia nel 1939  per dare una patria al figlio. Con l'inizio della seconda guerra mondiale, nel 1941, dopo una vita di stenti e di tragici avvenimenti famigliari, si trovò fortemente provata moralmente e come svuotata. Senza quella forza che le fu di sostegno nelle situazioni più drammatiche e che faceva parte della sua poetica. Decise di non vivere più. Si impiccò  il 31 agosto 1941 nella città tartara di Elabuga, dove si trovava.

La poesia è stata tutta la sua vita. "Non so quanto mi rimane ancora da vivere, non so se tornerò mai in Russia, ma so che fino all'ultimo verso scriverò forte, che le poesie deboli - non darò

[...] Signore, fino all'ultimo respiro lasciami essere  EROE DEL LAVORO:

- Dunque, con Dio!"

*

I versi crescono come le stelle e come le rose,

come la bellezza - inutile in famiglia.

E alle corone e alle apoteosi -

una sola risposta:  "Di dove questo mi viene?"

 

Noi dormiamo, ed ecco, oltre le lastre di pietra,

il celeste ospite, in quattro petali.

Mondo, cerca di capire! Il poeta - nel sonno - scopre

la legge della stella e la formula del fiore.

(Marina Cvetaeva. Mosca, 1892 -  Elabuga, 1941)

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