Monaco 2017 e quel déjà-vu sulla sicurezza

Il ministro russo degli Esteri Sergej Lavrov, a sinistra, stringe la mano al vicepresidente Usa Mike Pence durante la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, 18 febbraio 2017.

Il ministro russo degli Esteri Sergej Lavrov, a sinistra, stringe la mano al vicepresidente Usa Mike Pence durante la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, 18 febbraio 2017.

: Reuters
Il nodo cruciale dell’annuale Conferenza di Monaco era quello del rinnovo dell’impegno dell’amministrazione Trump nel ruolo di difensore e garante della sicurezza per l’Europa. Ecco come è andata

Alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco si sono svolte, come di regola, le solite sedute di brainstorming sui temi in agenda, secondo il format previsto per i dibattiti sui principali argomenti inerenti alla sicurezza. L’Università della Pennsylvania l’aveva giustamente definita per il quarto anno di seguito la “migliore Think Tank Conference”.

Quest’anno il nodo cruciale e più intrigante era quello della sostenibilità dell’impegno, almeno parziale, dell’amministrazione Trump nel ruolo di difensore armato e garante della sicurezza per l’Europa.

Gli ansiosi leader europei erano desiderosi di essere rassicurati sul fatto che non vi fosse all’orizzonte nessuna “brexit” segreta da parte di Trump su questo fronte.

L’impegno della “roccaforte Usa” verso la Nato

Per un’intera settimana la task force di Trump, composta dal vicepresidente Mike Pence, dal Segretario di Stato Rex W. Tillerson, dal Segretario alla Sicurezza nazionale John Kelly e dal Segretario alla Difesa Jim Mattis, si è profusa in grandi sforzi per rassicurare gli europei.

Come ha riportato il New York Times, gli emissari di Trump hanno rappresentato “la dottrina repubblicana ortodossa della sicurezza nazionale che si esplicita nel confronto con la Russia e prevede il supporto alla Nato e il sostegno alle istituzioni democratiche”.

“Oggi, domani e in ogni momento si può contare sul fatto che gli Stati Uniti resteranno ora e sempre il vostro grande alleato - ha dichiarato il secondo in comando -. Siate sicuri che il Presidente Trump e gli americani mostreranno piena devozione alla nostra alleanza transatlantica”

Dal canto suo Jim Mattis ha alzato i toni affermando che “il nostro patto transatlantico continua a essere il più forte baluardo contro l’instabilità e la violenza”.

Inoltre, l’irritante promemoria del vicepresidente Pence che ha rammentato come solo quattro paesi membri della Nato, escludendo gli Usa, abbiano speso, come concordato, il 2% del loro pil per la Difesa non ha raccolto nessun applauso.

“La promessa di condividere l’onere della nostra difesa non è stata esaudita per troppo tempo ed erode i fondamenti della nostra alleanza”, ha detto dalla tribuna Pence, pestando il pugno.   

Più tardi la cancelliera tedesca Angela Merkel, in un botta e risposta seguito al suo intervento, ha informato i dignitari Usa che il suo governo avrebbe destinato quest’anno l’8% alle spese militari. E ha precisato “non possiamo fare di più”, mettendo in tal modo in discussione la compatibilità della richiesta d’incremento con le linee guida della Nato.

Mentre i guardiani del vecchio ordine mondiale tiravano un sospiro di sollievo dopo l’asserzione degli emissari americani sulla validità tuttora attuale dell’Alleanza Atlantica, restava un certo fondo di amarezza a guastare la gioia collettiva.

Le parole pronunciate da Pence sono risultate altrettanto eloquenti di quelle che ha scelto di non dire. Il vice di Trump ha palesemente omesso ogni riferimento all’Unione Europea, fulcro dell’unità e della solidarietà che unisce nazioni eterogenee del Vecchio Continente spesso su posizioni divergenti. Non è apparso un lapsus di memoria degli autori dell’intervento.

L'Iran e la Siria

Inizialmente la Conferenza annuale sulla Sicurezza (Msc), promossa per la prima volta nel 1963, aveva essenzialmente la caratteristica di una “riunione di famiglia all’interno dell’unione transatlantica”, ma in seguito ha acquisito una dimensione più globale prodotta dalle sfide delle nuove emergenze da affrontare nel campo della sicurezza.

Con l’Endspiel del dramma siriano ben presente nelle menti collettive, le voci secondo cui Trump potrebbe effettivamente collocare i Gis sul terreno sono stati un corollario sul tappeto delle delibere da discutere. Il rischio elevato di un voltafaccia è legato alla probabilità che Trump si ritiri dall’accordo sul nucleare iraniano e assuma un atteggiamento ostile verso Teheran.

Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, in un’intervista concessa alla giornalista Christiane Amanpour per la Cnn, ha respinto l’ipotesi che gli Usa possano spazzar via unilateralmente l’accordo che ha richiesto due anni di lavoro incessante e che è l’esito finale di notevoli compromessi.

“Ritengo che tutti, inclusi gli esperti statunitensi, siano consapevoli che questo è il miglior accordo che si potesse raggiungere, non soltanto per l’Iran, ma anche per gli Stati Uniti - ha detto Zarif -. Si è trattato di una grande vittoria della diplomazia sulla coercizione dal momento che la coercizione non funziona più”.

Il 57enne iraniano, diplomatico di lungo corso, ha anche messo in guardia dall’“intervento di truppe straniere in territorio arabo” che potrebbe rivelarsi un regalo per gli estremisti che “fanno proseliti e reclutano nuovi combattenti tra i giovani privati dei diritti”. Inoltre, citando le parole di Trump, ha ribadito che sono state l’occupazione americana dell’Iraq e successivamente la politica sconsiderata dell’ex Presidente Barack Obama a creare l’Isis”.

In certa misura i commenti di Zarif sono apparsi un promemoria anche per la Nato e l’Alleanza Atlantica per rammentare che quando si affrontano questioni di sicurezza nazionale lontano dai propri confini occorre sempre tenere in considerazione gli interessi degli attori locali.

Nessun “cameratismo d’armi” con Mosca

Gli strateghi del Cremlino potrebbero sprecare un bel po’ di ore a scervellarsi per decifrare i messaggi contrastanti giunti da Washington in questi giorni.

Da un lato, il vicepresidente Mike Pence all’Msc ha spiegato che la nuova amministrazione lancia una sfida a quelli che ha definito “gli sforzi russi di ridelineare i confini internazionali con la forza”, senza offrire chiarimenti su ciò che intendeva dire.

Probabilmente, l’ex conduttore di talk show radiofonici e televisivi (Pence ha svolto questa professione dal 1994 al 1999) si riferiva all’invio in Crimea di “gentlemen” russi in uniforme per garantire che nessun atto violento o sovversivo potesse interferire con lo svolgimento regolare del referendum del 2014, conclusosi con il ritorno della penisola nella famiglia russa.

Dall’altro, mentre si delineavano le linee rosse nelle relazioni tra le due nazioni, l’ex avvocato Pence, efficace legale del Tea Party, non avrebbe escluso un riavvicinamento con Mosca, come suggerito dal suo leader.

“Gli Stati Uniti continueranno a ritenere la Russia responsabile, anche se stiamo cercando di trovare un nuovo terreno comune”, ha detto Pence.

In precedenza, Mattis nella sua poco garbata dichiarazione aveva sostenuto che gli Usa avrebbero dovuto relazionarsi con la Russia da una posizione di forza, scatenando così la secca reazione del ministro della Difesa russo, Sergej Shojgu, che aveva replicato che la mano pesante e la linea dura quando si vuole trattare con la Russia sono controproducenti.

In seguito, visitando i quartieri generali della Nato a Bruxelles, Mattis ha alleviato i timori degli alleati europei affermando che non ci sarebbe stato nessun “cameratismo d’armi” con la Russia, definita la principale minaccia alla sicurezza per gli Usa.

“Non ci troviamo ancora nella condizione di collaborare a livello militare”, aveva affermato l’ex generale dei marine a riposo.

Confusi segnali di fumo

Il Segretario alla Difesa Mattis ha apertamente dichiarato che la sua dura presa di posizione si allontanava un po’ dalla compiacente retorica di Trump, solo poche ore dopo che il Presidente Putin aveva esortato l’Fsb, l’Agenzia russa per la Sicurezza nazionale, ad avviare una cooperazione con l’Intelligence americana nella lotta contro il terrorismo.

“Il ripristino del dialogo con i servizi speciali degli Stati Uniti e con gli altri membri della Nato è nel nostro comune interesse”, aveva dichiarato Putin

Tutte queste prese di posizione contrastanti hanno coinciso con il primo incontro che ha avuto luogo dopo quasi tre anni tra Joseph F. Dunford Jr, un altro generale del corpo dei marine, oggi Capo dello Stato maggiore congiunto delle Forze armate statunitensi, e il suo omologo russo.

Tutti questi confusi segnali di fumo hanno dato adito a delle congetture: lo staff un po’ modello “insalata mista” di Trump è davvero allo sbando così come proclamava la macchina sabotatrice dei media messa in campo dalla Clinton? O, al contrario, si tratta di una premeditata strategia del bastone e della carota per ammorbidire Mosca?

Rivolgendosi alla platea dell’Msc, Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri russo, ha dettato de facto le basi preliminari necessarie per migliorare i rapporti con gli Usa e “tutto l’Occidente nel suo complesso”. Per il Cremlino queste basi imprescindibili sono “relazioni pragmatiche, rispetto reciproco e consapevolezza della nostra responsabilità speciale per la stabilità globale”.

In ogni caso, l’Msc ha riprodotto un inquietante déjà-vu e ha incoraggiato le fazioni conservatrici verso la leadership russa che appaiono scettiche sia su Trump che sulla linea dura degli europei. 

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