Vignetta di Alexei Iorsh
Il territorio dell'ex Unione Sovietica è entrato in una nuova fase di autodeterminazione. La firma del trattato sulla creazione di un’Unione economica eurasiatica, gli eventi in Ucraina, l'accentuazione del conflitto a seguito dell'accordo di associazione con l'Ue, la stipula attesa per fine giugno del medesimo accordo con Moldavia, Georgia e Ucraina, e i disordini in Abcasia, sono tutti tasselli di un mosaico raffigurante l'attuale panorama geopolitico nella regione.
Lo spazio post-sovietico è passato attraverso diverse fasi. All’inizio, l’impulso generato dal crollo dell'Urss mise alla prova la stabilità dei nuovi stati indipendenti. Alcuni di essi si sono rimpossessati dei loro confini storici, malgrado ciò sia stato accompagnato da violenti conflitti (due esempi: la guerra civile in Tagikistan e la battaglia condotta dalla Russia per il Caucaso del Nord), mentre altri, di fatto, hanno ceduto parte dei loro territori, pur mantenendo formalmente la loro unità (Azerbaigian, Georgia e Moldavia). La corsa geopolitica per questo "retaggio sovietico" si è rivelata, a conti fatti, piuttosto latente. L'Occidente, troppo impegnato ad assaporare l'assorbimento dei suoi "trofei" nell'Europa Centrale e Orientale e a stabilire la sua leadership, non si dimostrò inizialmente molto propenso a immischiarsi nelle confuse e caotiche dinamiche politiche dello spazio post-sovietico, nonostante considerasse che anche questa zona, presto o tardi, si sarebbe dovuta convertire a un sistema di istituzioni e priorità di stampo occidentale. Stati Uniti ed Europa non hanno ostacolato le azioni della Russia mirate a garantire la stabilità lungo il perimetro dei suoi confini, ma sì si sono assicurati che la sua influenza non avesse il sopravvento.
Alla fine degli anni '90, le ex repubbliche sovietiche fondavano basicamente la loro politica estera sul concetto di "multivettorialità”, destreggiandosi abilmente tra la Russia e i suoi concorrenti. Nella seconda metà degli anni '90, gli Stati iniziarono a recuperare le forze, riattivando così la competizione tra le forze internazionali. Tanto più che in Europa, proprio in quegli anni vennero prese decisioni strategiche chiave (l’allargamento della Nato e dell'Ue, il rafforzamento dell’integrazione e la neutralizzazione di regimi eterodossi come quello serbo). Alla fine degli anni '90, la Russia soffrì una nuova crisi a livello di sistema che spinse nuovamente il Paese sull'orlo del collasso. Nonostante la situazione, Mosca sfoderò una ricca serie di strumenti che le permisero di evitare che i suoi partner si riorientassero verso altri Paesi. Fu allora che la “multivettorialità” si impose come la base della politica estera delle ex repubbliche sovietiche, le quali si destreggiavano abilmente tra la Russia e i suoi concorrenti, senza mai propendere per un bando piuttosto che per un altro.
Negli anni 2000, lo stato delle cose si è mantenuto piuttosto stabile, nonostante i tentativi di autodeterminazione siano iniziati a diventare sempre più frequenti. L'orientamento filo-russo della Bielorussia ne è un esempio particolarmente significativo. Alexander Lukashenko, nonostante si trovasse in conflitto costante con l'Occidente, è riuscito comunque a barcamenarsi molto bene per ottenere favori extra dalla Russia. Al polo opposto troviamo la Georgia che, sotto la guida di Mikhail Saakashvili, ha assunto una posizione unidirezionale. Un caso a parte è l’Ucraina: dopo la "rivoluzione arancione", ha tentato di avvicinarsi all’alleanza euro-atlantica ma non ci è riuscita per motivi interni, nonostante il sostegno occidentale. Un esempio di Paese, invece, che ha assunto un atteggiamento a favore degli Stati Uniti, senza però dichiarazioni formali, è l’Azerbaigian, con la promozione di progetti energetici alternativi a quelli russi.
La guerra russo-georgiana alla fine del 2000 ha dimostrato la prontezza di Mosca a utilizzare la forza per impedire ai rivali di entrare in zone per lei d’interesse vitale. Ma nemmeno dopo l’uso della forza si è imposta la questione di una scelta di orientamento esclusivo. L'atteggiamento della Russia era visto più che altro come un invito a non distruggere uno status quo, più o meno multivettoriale, e a consolidarlo per evitare reazioni troppo improvvise. Ciononostante, ora, l'equilibrio delle forze è cambiato. La Russia ha riacquistato parte delle sue capacità, mentre l’Occidente sembra, al contrario, averle perse. La crisi ucraina del 2013 ha segnato l’inizio di una nuova fase. Il conflitto scaturito dalla possibilità di associazione dell’Ucraina con l'Ue, ha posto Kiev davanti a una scelta. E tanto l’Unione europea quanto la Russia hanno avanzato le proprie proposte, che si sono rivelate incompatibili con il consueto paradigma adottato da Kiev. Ora che ne conosciamo le conseguenze, tornare indietro non serve a nulla. La lotta delle forze internazionali è ormai una questione di principio. E non solo per Kiev.
La maggior parte dei Paesi dovrà scegliere. Solo i Paesi con risorse sufficienti potranno mantenere una certa distanza. Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan si mantengono fuori da qualsiasi alleanza. Un'altra possibilità è quella della "neutralità", mediante la stipula di un accordo con le diverse forze internazionali perché si proceda allo “sfruttamento congiunto" di un Paese piuttosto che di un altro. Ma si tratta per il momento di una possibilità puramente ipotetica, avanzata da veterani occidentali della Guerra Fredda, i quali parlano della necessità di una "finlandizzazione" dell'Ucraina.
I tempi in cui gli attori internazionali si sforzavano scrupolosamente di non apparire come avversari, dando l'apparenza di un "pluralismo geopolitico", stanno volgendo al termine. È chiaro che qualsiasi scelta comporta tanto una serie di vantaggi quanto di perdite. Ogni capitale dovrà quindi fare i conti per assicurarsi un giusto equilibrio. È stato, ad esempio, un imperativo di sicurezza ad aver spinto Erevan a operare una scelta in favore dell'Unione economica eurasiatica. Mosca non potrà fermare la Georgia: Tbilisi è consapevole del fatto che, per lei, non vi sono possibilità di riprendersi l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, pertanto non ha, da questo punto di vista, nulla da perdere, e la Russia, dal canto suo, è già ricorsa ad altri metodi per esercitare la propria pressione. Il caso della Moldavia è più complesso. E il problema non è tanto la Transnistria quanto la Gagauzia, la quale ha dichiarato di essere pronta a fare la propria scelta, qualora Chisinau faccia la sua.
Questa fase che predilige adesso un "vettore determinato" non sarà ovviamente l'ultima. Il mondo e l’Eurasia sono in continuo sviluppo, pertanto, non v’è da escludere che, dopo i nuovi conflitti, non prendano il sopravvento alcune tendenze di integrazione globale. Il che, da un punto di vista razionale, sarebbe preferibile. Tuttavia, come diceva il capo del proletariato mondiale, “prima di riunirsi bisogna dividersi”.
L'autore è il presidente del Consiglio per la politica estera e di difesa
Qui la versione originale dell'articolo
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