Vignetta di Natalia Mikhaylenko
Sono molte le similitudini interessanti che legano la figura di Edward Snowden a quella del famoso scrittore dissidente russo, Alexander Solzhenitsyn (1918-2008). L’esempio più recente è l’intervista che Snowden ha rilasciato al New York Times, spiegando le sue azioni e negando le voci che lo accusavano di aver passato segreti americani a spie cinesi e russe. Questa intervista è arrivata sfortunatamente troppo tardi. È stata infatti pubblicata diversi mesi dopo il picco dell’isteria scatenata dalla “talpa” del Datagate e culminata questa estate con un atterraggio forzato dell’aereo del Presidente boliviano (gli Stati Uniti e i loro alleati europei sospettavano che il velivolo stesse trasportando Snowden da Mosca alla Bolivia). Allo stesso modo, il ritorno di Solzhenitsyn in Russia, nel 1994, 20 anni dopo il suo esilio dall’Unione Sovietica nel 1974, venne visto da molti come un ritorno tardivo. Egli avrebbe dovuto fare ritorno negli anni 1989-1991, quando la vita politica russa era in subbuglio in vista dell’imminente crollo dell’Unione Sovietica.
Nell’intervista, Snowden spiegava di non considerare le sue azioni anti-americane e di non aver portato con sé nessun documento sensibile, dopo aver rivelato ai giornalisti, a Hong Kong, le informazioni sui programmi di sorveglianza della NSA. Si difendeva inoltre dalle voci che lo accusavano di lavorare per l'intelligence cinese o russa, affermando di essere riuscito a proteggere i documenti dai servizi segreti cinesi (negli Stati Uniti, Snowden aveva studiato a fondo l’intelligence cinese e conosceva, pertanto, molto bene le sue capacità). E aggiungeva infine che la NSA sapeva già che egli non aveva rivelato nessun segreto ai cinesi.
Caso Snowden, un affare per tre |
Queste spiegazioni sono arrivate, però, troppo tardi per la reputazione di Snowden. Per diversi mesi, tra la primavera e l’estate di quest’anno, i funzionari degli Stati Uniti avevano lanciato una feroce campagna contro Snowden, chiamandolo traditore e accusandolo di aver venduto informazioni ai cinesi e ai russi per perseguire interessi puramente materiali e non pubblici. Anche Solzhenitsyn, alla pari di Snowden, non si preoccupava più di tanto di curare le sue relazioni pubbliche: invece di proteggere se stesso dalle accuse di tradimento, sollevate contro di lui dalle autorità sovietiche, lo scrittore non faceva che parlare dei problemi globali della Russia e del mondo in generale, senza mai rivelare dettagli della propria vita personale che potessero soddisfare la curiosità del pubblico.
Ma non staremo forse commettendo un errore, giudicando questi due uomini come se fossero delle celebrità moderne, che cercano di fruttare qualsiasi evento della loro vita per guadagnarci in pubblicità? Il 99 per cento dei personaggi pubblici, sia russi che americani, non si sarebbero di certo rinchiusi in un albergo capsulare per sfuggire alle telecamere, qualora si fossero trovati nell’aeroporto di Mosca nella stessa situazione di Snowden, con gli occhi di tutto il mondo puntati su di loro. Questa, essenzialmente, è la ragione per cui Snowden non è come Obama, o Medvedev, né tantomeno come lo stuolo di esponenti dell’opposizione, tanto russa quanto americana - dal rispettabile Noam Chomsky al mediatico Ilya Yashin. Egli è più simile ad Alexander Solzhenitsyn. Entrambi hanno una grande e interessante personalità.
La differenza principale tra Solzhenitsyn e Snowden (uno di loro ha scritto romanzi sul sistema carcerario sovietico, l’altro ha passato informazioni sul programma di sorveglianza degli Stati Uniti) risiede nella forma, più che nella sostanza. Negli anni Cinquanta e Sessanta, quando Solzhenitsyn scrisse le sue opere migliori, la gente leggeva ancora romanzi epistolari, con lettere scritte da autori fittizi. Ai tempi di Snowden, la società preferisce soggetti reali, come messaggi e-mail autentici, trapelati via internet. Oggi come oggi, i generi letterari si evolvono più rapidamente che in qualsiasi altro momento della storia umana.
Snowden protagonista di una tragicommedia |
La somiglianza principale, invece, risiede nella reazione delle autorità. Né le autorità sovietiche (nel 1970) né quelle americane (nel 2013) hanno negato la veridicità delle rivelazioni fatte da Solzhenitsyn e Snowden rispettivamente, si sono solo limitate a dire che i due “autori” stavano presentando casi isolati come se fossero la prassi comune. Leonid Brezhnev, leader sovietico degli anni Settanta, non poteva negare l’esistenza dei campi di concentramento di Stalin, che Solzhenitsyn descriveva nei suoi romanzi; tuttavia si limitò a dire che si trattava di “deviazioni da un supposto socialismo originario” e di “errori individuali”. Quello che il KGB stava cercando di fare, dopotutto, era proteggere il popolo russo dalle spie straniere. Allo stesso modo, i difensori della NSA, negli Stati Uniti, hanno dichiarato che il programma PRISM aveva come unico obiettivo quello di proteggere il Paese dai terroristi e che se , nel processo, erano stati spiati anche dei cittadini pacifici, si era trattato solo di casi sporadici, nonostante, in realtà, questi “errori individuali” si potessero contare a milioni, proprio come con le rivelazioni di Solzhenitsyn relative all’intero “arcipelago” di campi di lavoro.
Sia Solzhenitsyn che Snowden sono stati accusati da alcuni dei loro compatrioti per aver rivelato le loro scoperte agli stranieri e non alle proprie autorità nazionali. Diversi congressisti, ad esempio, si sono lamentati del fatto che Snowden “non sia ricorso in prima istanza al Congresso”. Solzhenitsyn fu accusato a suo tempo dalle autorità sovietiche di comportarsi come una “spia straniera”; le autorità criticarono la sua decisione di smettere di pubblicare le sue opere in prosa sulla rivista letteraria Novy Mir, una pubblicazione che godeva del sostegno del Governo sovietico e sulla quale nel 1962 lo scrittore aveva fatto uscire il suo famoso romanzo “Una giornata di Ivan Denisovich”.
Le persone che lo aiutarono a far uscire i manoscritti dei suoi romanzi dal Paese ebbero diversi problemi con il KGB, proprio come le autorità americane e britanniche fecero pressione sul giornalista del The Guardian che si preoccupò di trasmettere il messaggio di Snowden in tutto il mondo. Queste accuse sarebbero giustificate qualora qualcuno avesse davvero prestato attenzione alla voce di Solzhenitsyn o di Snowden nei loro rispettivi Paesi di origine. In entrambi i casi, però, questi cercatori di verità hanno trovato sostegno e comprensione solo all’estero. Le storie di Solzhenitsyn e Snowden dimostrano che le probabilità di un americano medio di influenzare le decisioni politiche del proprio Paese sono pari a quelle di un cittadino sovietico in epoca sovietica. E qui si possono vedere anche delle somiglianze tra Brezhnev e Obama, anche se non proprio a favore di Obama. Brezhnev avrebbe potuto inviare Solzhenitsyn ai Gulag (il sistema dei campi di lavoro era ancora in funzione nel 1970, anche se in scala ridotta rispetto al 1950), ma il leader sovietico preferì evitare un processo, che avrebbe contribuito solo a infierire un duro colpo all’immagine dell’Unione Sovietica, e Solzhenitsyn venne così mandato nella Germania Ovest (RFT).
Per quanto riguarda Snowden, egli si trovava già in esilio nella RFT dei giorni nostri (ovvero Hong Kong e successivamente la Russia), quando fece le sue rivelazioni. Ora, il Presidente Obama vuole a tutti i costi che egli faccia ritorno negli Stati Uniti per un “processo giusto”. È chiaro che qualora Snowden venisse sottoposto a tale processo, finirebbe sicuramente nella versione moderna e americana di un Gulag. È triste vedere come la storia si ripeta, non come una farsa, ma come un perfido gioco - un gioco “orwelliano”, aggiungerebbe qualcuno…
Dmitri Babich è un analista politico della radio “La Voce della Russia”
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