Obama, il Gorbaciov americano

Vignetta di Niyaz Karim

Vignetta di Niyaz Karim

E se il presidente degli Stati Uniti trasformasse il reset in perestrojka?

Il 44mo presidente degli Stati Uniti Barack Obama è intervenuto davanti al congresso americano con l’annuale discorso sulla situazione del Paese; per la prima volta però non in qualità di aggregatore, né come promulgatore di infiniti compromessi, ma come un liberale coerente e un fermo oppositore della maggioranza conservatrice del partito repubblicano.

Ha preteso l’aumento delle tasse, ha insistito per mantenere i programmi sociali più importanti, ha proposto la limitazione dell’accesso alle armi, elencando per nome alcune vittime del secondo emendamento e infine, ed è forse il punto fondamentale, ha promesso di ritirare le truppe dall’Afghanistan nel 2014, mettendo di fatto la parola fine a una guerra di dodici anni contro il terrorismo mondiale.

Non è tanto che Obama abbia detto che Al Qaeda o qualche altra organizzazione con scopi di quel genere non minacci più gli Usa; il presidente ha fatto capire che per l’America non c’è necessità di un ennesimo intervento armato per scongiurare il fantasma del terrorismo.

A giudicare dalle singole riserve di Obama si può perfino concludere che la pressione sul regime siriano sarà di carattere puramente diplomatico e l’ingerenza nella guerra civile in Libia dalla parte degli insorti non diventerà un precedente per una risoluzione analoga della situazione in Siria.

Nel complesso Obama si è spinto già fin troppo avanti per meritarsi l’odio dei neocon e degli imperialisti di casa sua e di chi, oltre i confini statunitensi, sperava così tanto in un aiuto dall’esterno.

Il Nobel per la Pace consegnato sulla fiducia ne è la motivazione o forse lo sono le convinzioni personali del padrone della Casa Bianca; fatto sta che per Obama sembra calzante il titolo di “Gorbaciov americano” che però tutti hanno smesso di utilizzare proprio quando iniziavano a comparire i veri elementi per un simile paragone.

In effetti le analogie sono sorprendenti. Mikhail Gorbaciov ritirò le truppe dall’Afghanistan durante il quinto anno di governo; anche Obama si appresta a farlo e, per di più cinque anni, dopo l’arrivo alla Casa Bianca.

Gorbaciov esortò a diminuire il potenziale nucleare, avallando una serie di concessioni nei confronti degli Usa. Obama ovviamente non le fa e nessuno comunque glielo permetterebbe. Detto questo egli continua, anzi inizia, il difficile dialogo con Mosca per la riduzione delle armi nucleari.

È chiaro che Putin non incuta un grande timore a Obama e difficilmente Reagan stava più simpatico a Gorbaciov. Reagan voleva sempre vedere in Gorbaciov non un marxista secolare, ma la profondità d’animo di un uomo molto credente; non è escluso che anche per Putin Obama sia troppo liberale, nel senso di troppo secolare. Suppongo che egli abbia fin troppe motivazioni per stare in guardia con Obama e sospettare che tutto il suo “reset” – che mi ricorda sempre di più la nostra “perestrojka” – rappresenti una sorta di segreta “fregatura”.

L’entourage repubblicano di Reagan all’inizio accolse Gorbaciov in modo analogo. Come scrive il giornalista politico americano James Mann nel suo magnifico saggio “La ribellione di Ronald Reagan”, tutti i guru del cosiddetto realismo – Kissinger, Nixon, il generale Scowcroft – ovvero coloro che avevano trovato una splendida lingua comune con il conservatore Brezhnev, esortavano Reagan a temere il giovane e famoso Gorbaciov e a non intavolare con lui lunghe trattative. Ma soprattutto a non cedere al nocivo fascino del segretario generale liberale. Reagan rifiutò tutti questi consigli, fece una rivoluzione nella sua cerchia di fedelissimi, intraprese il cammino di avvicinamento all’Urss di Gorbaciov e alla fin fine vinse la guerra fredda.

Oggi anche a Putin consigliano da tutte le parti di avere paura di qualche terribile provocazione da parte di un Obama che fa passi indietro, inducono a vedere nella sua stessa “ritirata” una manovra astuta e maliziosa, la quale, appena ci si dovesse sottostare, porterebbe alla dissoluzione della Russia e all’ascesa al potere dell’opposizione della Bolotnaja.

Avevamo così paura che si ripetesse una “perestrojka” a casa nostra che non abbiamo potuto credere a un suo inizio oltreoceano, condizionata dalle stesse motivazioni per la quale era stata concepita in Urss: eccesso di tensione imperiale, richiesta di limitare gli impegni militari per risolvere i problemi economici e sociali in corso.

Questo non significa che in Usa si prevede una disgregazione territoriale, un tracollo economico o che il Paese cederà il trono di superpotenza, persino quello di unica superpotenza. Qui per ora si tratta soltanto del temporaneo ripiego su posizioni precedentemente formulate e non di una corsa terrorizzata in cui noi stessi abbiamo trasformato la nostra “epoca dei cambiamenti”.

Anche oggi il leader del nostro Paese ha un’ottima chance: interpretare il ruolo del Reagan russo. Senza respingere la mano tesa di un partner lievemente indebolito che già non si vergogna più di ammettere i propri acciacchi e disturbi.

E se vogliamo dare spazio alla fantasia bisognerebbe immergere il presidente americano nell’atmosfera di amore generalizzato che c’è per lui in Russia, anche soltanto per renderlo più ben disposto verso il nostro Paese e più sensibile agli interessi della nostra Federazione.

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