Rovine nella provincia di Idlib, in Siria. Fonte: Oleg Blokhin/Anna News
Secondo quanto ha riferito il canale televisivo iracheno Al Sumaria, Abu Bakr al-Bagdhadi, leader del gruppo terroristico dell’Isis, avrebbe pubblicato negli ultimi giorni un “comunicato d’addio” in cui il capo supremo dei terroristi ammetterebbe la disfatta dell’Isis nella città irachena di Mosul (a combattere nel territorio contro le milizie islamiche è l’esercito iracheno con l’aiuto degli Usa) e ha esortato i suoi alleati a fuggire dalla città o a cadere come shahid.
L’“appello” di al-Bagdhadi è sospetto. Secondo gli esperti, la retorica della sconfitta non è tipica dell’Isis ed è assai probabile che siano state le autorità irachene a lanciare una campagna di disinformazione per spezzare lo spirito combattivo dei terroristi. Ma in realtà le cose per il “califfato” stanno andando male.
Una guerra su due fronti
L’esercito iracheno insieme agli alleati occidentali sta cacciando i terroristi dalla loro “capitale” Mosul. A gennaio il governo ha conquistato la parte orientale della città. Oggi sono in corso combattimenti nella parte occidentale di Mosul dove le forze lealiste stanno riconquistando lentamente, ma progressivamente, la città quartiere dopo quartiere.
Parallelamente l’Isis sta subendo delle sconfitte anche in Siria. Il 23 febbraio l’esercito turco ha liberato dai combattenti islamici la città di al-Bab a Nord, mentre il 2 marzo, come ha riferito il ministro della Difesa Sergej Shojgu a Vladimir Putin, l’esercito siriano con l’aiuto delle forze aeree russe ha riconquistato Palmira (la città era sotto il controllo dell’Isis dal dicembre 2016).
Un soldato delle forze speciali irachene tra gli edifici distrutti di Mosul, in Siria, 2 marzo 2017. Fonte: Reuters
La ritirata
Malgrado le sconfitte subite in Siria e Iraq, è ancora prematuro parlare di una disfatta dei terroristi, di ciò si dicono convinti sia i vertici ufficiali che gli esperti. Così il generale Steven Townsend, che guida le operazioni internazionali contro l’Isis in Iraq, ha osservato che nella sola Mosul restano ancora almeno 2.000 terroristi e che la coalizione sarà ancora coinvolta in aspri combattimenti.
“Non credo ai comunicati diffusi dai media iracheni secondo cui i membri dell’Isis abbandoneranno in massa i loro territori dandosi alla fuga”, afferma Grigorij Kosach, docente di Storia contemporanea del mondo arabo dell’Rggu. Secondo le informazioni in possesso dell’esperto, le milizie dell’Isis mostrano di avere ancora brillanti risorse in campo militare in città: servendosi di tunnel sotterranei, sferrano attacchi improvvisi contro gli aggressori persino nei quartieri già conquistati dalle forze lealiste: “A Mosul sono in corso intensi combattimenti e lo stesso accadrà a Raqqa (la “capitale” siriana dell’Isis) quando cominceranno a bombardarla”, ritiene Kosach.
Un’esplosione nel quartiere al-Mamoun di Mosul durante uno scontro a fuoco con i militanti dello Stato Islamico, 1 marzo 2017. Fonte: Reuters
Il caos nel nord della Siria
La città di Raqqa, situata nella parte orientale della Siria, resterà la principale roccaforte dei terroristi dopo la caduta di Mosul. Per annientare l’Isis occorre bombardare Raqqa, ma in questo momento non ci sono forze per bombardarla. Il modo più comodo per attaccare Raqqa è farlo dalle regioni settentrionali della Siria dove i turchi e le formazioni filo-curde delle Sdf (Syrian Democratic Forces) combattono contro l’Isis, ma attualmente queste due forze sembrano più concentrate a farsi la guerra tra loro.
L’esercito turco è entrato ufficialmente in Siria nell’agosto 2016 per contrastare l’Isis, ma gli esperti hanno più volte rilevato che il vero obiettivo della Turchia è quello d’impedire ogni forma di autonomia curda nel Nord della Siria. Non appena l’Isis verrà cacciato dal Nord della Siria, il Presidente turco Recep Erdogan ha promesso che l’obiettivo successivo del suo esercito non sarà la conquista di Raqqa, ma di Manbij, la città sotto il controllo delle Sdf. A loro volta i curdi, che hanno un ruolo chiave nelle Sdf, considerano i turchi come fiancheggiatori dei terroristi e sono pronti a combatterli.
Al contempo, gli Stati Uniti sostengono i curdi siriani, che hanno un peso determinante nelle Sdf. Il 28 febbraio è stato reso noto che nei pressi di Manbij sono stati dislocati dei reparti speciali americani. Si è venuta a creare una situazione carica di tensione che pone la Turchia a rischio di un conflitto non solo con i curdi, ma anche con gli Stati Uniti.
I membri delle forze di sicurezza irachene mostrano una bandiera dello Stato Islamico staccata dopo un combattimento contro i militanti dell’Isis nel distretto al-Josaq di Mosul, 27 febbraio 2017. Fonte: Reuters
Una possibile conciliazione delle parti
Anton Mardasov, direttore della Sezione di ricerche sui conflitti mediorientali dell’Istituto per lo Sviluppo innovativo, sostiene che la Russia si trova in una situazione molto complessa, ossia “fra tre fuochi”. Appoggia al tempo stesso Bashar Assad, conserva buoni rapporti con la Turchia e cerca di scongiurare una guerra turca contro i curdi nel Nord della Siria.
Mardasov cita la dichiarazione rilasciata dalle Sdf il 2 marzo, secondo cui i curdi si sarebbero accordati con la Russia affinché i reparti di Assad scatenino una “bufera” tra Manbij e l’esercito turco. In tal modo, a detta di Mardasov, la Russia cercherebbe insieme con gli Stati Uniti di tenere separati i turchi e i curdi per trovare un accordo su Manbij e coinvolgere successivamente le forze militari turche nei bombardamenti di Raqqa.
Oggi, a detta dell’esperto, la situazione appare incerta: “Naturalmente il tema della crisi siriana sarà al centro dell’incontro che avrà luogo a Mosca tra Putin ed Erdogan il 9 marzo. Finché non saranno resi noti gli esiti di questi colloqui è azzardato fare previsioni”. Poco chiara risulta attualmente anche la posizione della nuova amministrazione Usa, sostiene Mardasov: per il momento Donald Trump non ha rilasciato alcuna dichiarazione sul rapporto che gli è stato presentato dal Pentagono in merito alla strategia di lotta contro l’Isis. In ogni caso sarà possibile pensare a una disfatta del “califfato” solo quando i suoi innumerevoli nemici riusciranno a risolvere i loro conflitti interni e a concentrare tutti i loro sforzi nella guerra contro il terrorismo.
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