Al G20 per fare la pace e non la guerra

La Russia che presiede il G20 del 2013 a San Pietroburgo ha speso 215 milioni di dollari per l'organizzazione del summit (Foto: Reuters)

La Russia che presiede il G20 del 2013 a San Pietroburgo ha speso 215 milioni di dollari per l'organizzazione del summit (Foto: Reuters)

I leader del mondo, riuniti dal 5 settembre 2013 a San Pietroburgo, farebbero meglio a promuovere un’agenda senza ostilità, che inevitabilmente porterebbe stabilità e affari

I leader delle 20 più importanti economie del mondo convergeranno nella splendida città di San Pietroburgo per un vertice annuale che, per ovvie ragioni, ha più a che vedere con l’economia che con la politica. Sarebbe tuttavia difficile, per i capi di governo convenuti, ignorare l’elefante nella stanza: la crisi siriana.

A ridosso dell’inizio del G20, il ministro russo della Difesa ha detto che i radar per l’allerta preventiva hanno avvistato il lancio di due missili balistici nel Mediterraneo orientale. Dopo il susseguirsi di varie congetture che hanno addirittura fatto aumentare il prezzo del Brent, un rappresentante del Ministero israeliano della Difesa ha riferito a Ria Novosti che i missili, caduti in mare, erano stati lanciati dall’esercito israeliano nell’ambito di un test congiunto con gli Usa.

Il messaggio del Dalai Lama

Il Dalai Lama ha comunicato con un tweet di “essere convinto che nel mondo c’è un desiderio sempre maggiore di pace. Molti giovani sono stanchi di guerra e di violenza”. Non sarebbe bello se anche i governi ne fossero altrettanto stanchi?

Da Washington e dai suoi alleati occidentali si sono sentite arrivare esortazioni alla guerra e ai raid aerei. È un po’ paradossale che il vincitore del premio Nobel per la Pace (Barack Obama) inciti alla violenza, e che sia appoggiato per altro da un co-vincitore del medesimo premio (la Francia, membro ispiratore della nascita dell’Unione Europea).

C’è veramente da chiedersi per quale motivo la Casa Bianca non abbia ancora appreso niente dalle sue disavventure in posti come l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia.

Un giornale edito da Linda Bilmes, che tiene conferenze di Scienze politiche a Harvard, sostiene che le campagne in Iraq e in Afghanistan costeranno ancora ai contribuenti statunitensi dai quattro ai seimila miliardi di dollari, una volta tenuto conto delle varie spese e includendo l’assistenza medica ai soldati feriti. Questa cifra enorme supera addirittura il Pil complessivo di 17 dei 20 Paesi del G20. Se poi il totale dovesse arrivare a seimila miliardi di dollari, potremmo escludere il Giappone e considerarla pari al Pil complessivo di 18 Paesi. Tutti questi soldi non avrebbero potuto essere spesi meglio, per fini più costruttivi? Seimila miliardi di dollari non sono noccioline per un’economia globale che sembra zoppicare.

Che cosa ha fruttato veramente la guerra in Iraq agli Stati Uniti? Un diplomatico americano di recente mi ha detto di sentirsi deluso perché parecchi contratti petroliferi iracheni assai cospicui sono stati assegnati a società cinesi e francesi (entrambi questi Paesi erano contrari all’intervento militare a Baghdad).

L’Afghanistan pare in procinto di cadere in mano ai talebani non appena le forze di sicurezza lasceranno il Paese e ciò creerà una situazione assai simile a quella antecedente all’11 settembre, quando Kabul ospitava e proteggeva ogni sorta di terroristi. Queste guerre hanno inoltre contribuito ad acuire l’antiamericanismo e a seminare un diffuso anti-occidentalismo in tutto il mondo islamico. In sostanza, si sono buttati via seimila miliardi di dollari senza nessun tipo di vantaggio a lungo termine per gli Stati Uniti.

Durante tutta la crisi siriana, la Russia ha sostenuto che la guerra non è una soluzione praticabile e che le parti in conflitto devono raggiungerne una politica. Qualsiasi persona ragionevole concorderebbe che soltanto un’inchiesta delle Nazioni Unite in merito all’uso di armi chimiche in Siria potrebbe essere considerata imparziale. La fretta con la quale Washington ha deciso che il regime di Assad ha perpetrato quegli attacchi è sbalorditiva. Ciò cui è pervenuta non è forse simile al rapporto dell’intelligence che convinse gli Stati Uniti che l’Iraq era in possesso di armi di distruzione di massa?

Un intervento militare occidentale in Siria potrebbe non soltanto rivelarsi catastrofico per il grande Medio Oriente nel suo complesso: anche i prezzi del petrolio potrebbero risentirne e influire negativamente sia sulle economie emergenti sia su quelle sviluppate.

Paesi come l’India, che hanno un deficit delle partite correnti sempre più cospicuo, e il Giappone, la cui economia sta incassando colpi che è difficile ricordare andando indietro nel tempo, dovrebbero sostenere l’impatto di una maggiore instabilità nel Golfo Persico. La Cina, la seconda economia più grande al mondo, sta anch’essa affrontando una recessione ed essendo una forte importatrice di energia non sarebbe certo contenta se il prezzo del greggio arrivasse alle stelle. Il Brent ha raggiunto il prezzo record degli ultimi sei mesi, toccando i 117,34 dollari. Di sicuro, i decision-maker di Pechino non ne saranno molto contenti. Una guerra, oltretutto, provocherebbe anche problemi alle rotte commerciali e causerebbe fastidi alle esportazioni cinesi.

Da quanto si dice a Washington, al summit del G20 si discuterà di crisi siriana soltanto se sarà la Russia a sollevare la questione. Sarebbe però una vera e propria farsa se i leader di tutto il mondo non discutessero di quella che è senza alcun dubbio la questione politica più pressante del momento e, di default, anche quella più importante dal punto di vista economico.

La Russia deve inserire la questione siriana ai primi posti della sua agenda. La maggior parte dei membri del G20, che da una nuova guerra devono aspettarsi soltanto di rimetterci, deve anch’essa esercitare pressioni sulle vere potenze globali affinché trovino una strada per arrivare alla pace.

Tra questi Paesi vi è l’India, che aspira a entrare a far parte in modo permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sempre indeciso in merito alle più importanti questioni internazionali.

È di vitale importanza che i membri del G20 lavorino alla bozza di una risoluzione di pace globale che inauguri una nuova era di sviluppo e di prosperità economica. Le attuali situazioni di insicurezza e instabilità globale non potranno certo creare un clima propizio a una ripresa economica.

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