Biennale, Bruskin a Venezia presenta l’arte russa

Grisha Bruskin

Grisha Bruskin

Марианна Волкова
Il pittore Grisha Bruskin è uno dei personaggi più attesi del padiglione russo alla Biennale di Venezia. E in esclusiva a Rbth racconta il suo distacco dall’Urss e la sua nuova vita negli Usa: “Amavo il jazz, ma l’America era un mondo di cui non capivo nulla”

L'artista russo Grisha Bruskin. Fonte: Marianna VolkovaL'artista russo Grisha Bruskin. Fonte: Marianna Volkova

Grisha Bruskin è uno degli artisti russi più conosciuti in Occidente. Ha la doppia cittadinanza, russa e Americana. Ma in fondo, come ogni artista, si può definire cittadino del mondo. Quest’anno sarà il personaggio più atteso del padiglione russo alla Biennale di Venezia dove verrà presentato il progetto Theatrum Orbis Terrarum.

Alla vigilia dell'esposizione Bruskin ha raccontato a Rbth la partenza dall’Urss, la vita negli Stati Uniti e i rapporti tra la politica mondiale e l’arte russa.

Gli artisti russi partecipano con regolarità sia all’esposizione principale sia agli eventi collaterali della Biennale. Dopo Venezia però i loro nomi sembrano volatilizzarsi. Non ci vede una certa disattenzione da parte di curatori ed esperti?

Le questioni sono due. Una riguarda i pregiudizi dell’Occidente nei confronti dell’arte russa, che esistono, eccome. Non soltanto verso l’arte russa, ma verso la Russia in generale. Perché in passato la Russia è stata percepita dagli intellettuali occidentali con una certa tensione, se così si può dire.

Prendiamo ad esempio le carte geografiche dell’Ottocento: gli altri Paesi venivano raffigurati con animali selvaggi o personaggi vari, la Russia invece era sempre rappresentata da un bandito col coltello, o con un’altra arma, che guardava l’Occidente con fare aggressivo.

A metà del XIX secolo il giovane Gustave Dorè ha realizzato una serie di scritti e illustrazioni in cui descriveva la Russia come un mostro. A quei tempi in Francia andavano di moda varie teorie razziste ed è evidente che quello fosse il modo con cui si guardava alla Russia. In quell’album i russi nascono dagli orsi polari e dai trichechi. Il neonato è presentato come un mostriciattolo pieno di peli con un’espressione aggressiva.

Sembra proprio il sonno della ragione…

Esattamente. Sono convinto che l’arte russa non sia per niente peggiore di quella occidentale. È diversa, tutto qui. È un’arta fantastica in ogni sua epoca. Ma la prima reazione degli occidentali a qualcosa di nuovo nell’arte russa è sempre di negazione, di rigetto. “L’abbiamo già visto”, “Non è interessante”. Dopo però passa un po’ di tempo e si scopre che quell’arte russa che ieri non serviva all’Occidente è diventata una parte importante dell’arte mondiale. È successo con l’avanguardia russa, con la musica… Questo archetipo del rifiuto della cultura russa è presente ancora oggi.

L’altra questione è la partecipazione dei giovani pittori alla Biennale. È una mostra enorme di arte per lo più scadente, ma queste esposizioni sono interessanti perché mostrano la stato attuale della cultura, dove si muove. Anzi, più che dove si muove, quale sia il gusto dei curatori, il gusto del momento…

… e la congiuntura politica.

Politica e ideologia. La scorsa edizione della Biennale era dedicata al “Capitale” di Marx, un’opera di culto. Certo, è un libro importante e una dottrina che ha influenzato, per usare un eufemismo, i destini del Novecento, degli artisti e degli intellettuali in generale, visto che la stragrande maggioranza degli intellettuali occidentali era marxista.

Non è però un problema esclusivo degli artisti russi, in gran parte giovani, che non diventano famosi dopo la Biennale, ma anche di quelli coreani, cinesi, africani e così via. La popolarità dell’artista aumenta, è ovvio, ma non significa che dopo la Biennale diventi il nuovo Andy Warhol.

Lei ha detto che l’interesse verso l’arte russa contemporanea si è riacceso in Occidente a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, in seguito alla fine della “cortina di ferro”. Quindi si trattava in fin dei conti di un interesse per qualcosa di estraneo e ostile.

L’ho detto e ora posso affermare che quando la Russia rappresenta un pericolo per l’Occidente, quando è forte, suscita un interesse di gran lunga maggiore.

Questo vorrebbe dire, secondo Lei, che nell’attuale situazione politica l’arte russa contemporanea ha una nuova occasione?

Non azzarderei ipotesi così precise, vediamo come si mettono le cose. Di certo ci saranno ripercussioni nei contatti culturali. Oggi la Russia nel mondo è demonizzata. E in primo luogo è stata l’amministrazione americana precedente, quella di Barack Obama e della sua cerchia, a farlo. Poi anche l’Europa che segue a ruota l’America. Mettiamola così: adesso Trump rompe il ghiaccio e perdiamo un’altra chance (ride).

È andato a lavorare negli Usa nel 1988, dopo la prima asta di Sotheby’s in Unione Sovietica, a Mosca. Ma ancora prima il regista Milos Forman aveva comprato una sua opera. Come è successo?

È successo nel febbraio 1988, alla mostra “L’artista e la contemporaneità”. C’era già aria di perestrojka, ma non si capiva dove portasse questa “musica”. L’esposizione era il frutto di un gruppo di artisti che si era riunito e aveva deciso di allestire una mostra, esponendoci tutto quello che per un motivo o per l’altro non aveva potuto mostrare prima della perestrojka. Si è tenuta nella sala espositiva “Na Kashirke” e i rapporti tra gli artisti e le autorità locali, che avevano paura di inaugurarla, sono stati complessi.

Guerriero-androgino melanconico, 2010\nufficio stampa<p>Guerriero-androgino melanconico, 2010</p>\n
&ldquo;Metamorfosi&rdquo;, dettaglio della mostra &ldquo;Alefbet-Alfabeto della memoria&rdquo;\nufficio stampa<p>&ldquo;Metamorfosi&rdquo;, dettaglio della mostra &ldquo;Alefbet-Alfabeto della memoria&rdquo;</p>\n
&ldquo;La collezione dell&rsquo;archeologo&rdquo;, installazione nella Chiesa di Santa Caterina a Venezia\nufficio stampa<p>&ldquo;La collezione dell&rsquo;archeologo&rdquo;, installazione nella Chiesa di Santa Caterina a Venezia</p>\n
&ldquo;La collezione dell&rsquo;archeologo&rdquo;, dettaglio dell&#39;installazione nella Chiesa di Santa Caterina a Venezia\nufficio stampa<p>&ldquo;La collezione dell&rsquo;archeologo&rdquo;, dettaglio dell&#39;installazione nella Chiesa di Santa Caterina a Venezia</p>\n
 
1/4
 

In quei giorni alcuni traduttori che conoscevo stavano lavorando a Mosca al forum “Per un mondo senza nucleare”. Era stata un’idea di Gorbachev, dettata dal suo desiderio di far vedere che nel Paese stavano avvenendo grandiosi processi rivoluzionari che avrebbero portato a un rapporto diverso tra l’Occidente e l’Urss. Erano stati invitati rappresentanti della chiesa, della politica e naturalmente del mondo dell’arte. Vennero molti personaggi famosi, tra cui lo scrittore svizzero Max Frisch e il regista Milos Forman. E quando ci hanno minacciato di annullare la mostra abbiamo deciso di invitare questi personaggi di spicco perché facessero da garante e assicurassero che la mostra non venisse chiusa.

I traduttori li hanno portati al vernissage, c’era anche Yoko Ono. Così ci siamo conosciuti. Forman voleva comprare un mio lavoro. Siamo andati in un’agenzia controllata dal KGB che si occupava di esportazioni, si è sollevato un polverone intorno a Forman, ma gli hanno permesso di comprare il quadro.

Era euforico quando è arrivato in America?

Sono arrivato devastato, in un mondo di cui non capivo nulla. Venire qui ora dalla Russia è un conto, farlo all’epoca era tutta un’altra cosa. Non sapevo che cosa fosse una banca, un contratto, un assegno, non sapevo niente di niente. Non capivo quei concetti. Tutte le mie conoscenze degli Stati Uniti derivavano dalla letteratura. Da Mark Twain e Faulkner, per di più. Amavo il jazz. La vita però era un’altra cosa. Dovevo lavorare e capire che gente avevo intorno, chi voleva fregarmi e chi no. Non è stato semplice. Non avevo parenti né amici, ero da solo con me stesso.

Quando sono arrivato dicevano che avrei fatto i miliardi, ma non era vero. Non avevo un soldo in tasca. Dovevo guadagnarmi da vivere, trovare una galleria. C’era Struve che lavorava con me, con Prigov e Orlov: eravamo tutti e tre artisti russi. Dopo sono stato contatto da diverse gallerie che mi hanno chiesto di collaborare.

Racconto spesso questa storiella. È un po’ furbetta, ma c’è del vero. Quando varie gallerie mi hanno proposto di lavorare con loro non sapevo e non capivo niente. Tra le altre c’era la galleria Marlborough e io all’epoca fumavo le Marlboro. E ho pensato che almeno quella parola la conoscevo. Ripeto, in parte è un aneddoto, ma soltanto in parte, perché la prima reazione è stata veramente quella. Poi ho chiesto in giro chi fossero e che cosa facessero.

&quot;Lessico fondamentale&quot;, frammento, 1986\nufficio stampa <p>&quot;Lessico fondamentale&quot;, frammento, 1986</p>\n
&quot;Lessico fondamentale&quot;, 1985&nbsp;\nufficio stampa <p>&quot;Lessico fondamentale&quot;, 1985&nbsp;</p>\n
Installazione &quot;Alefbet&quot; ad Amsterdam, 2012\nufficio stampa <p>Installazione &quot;Alefbet&quot; ad Amsterdam, 2012</p>\n
Tempo &quot;Ч&quot;, 2012&nbsp;\nufficio stampa <p>Tempo &quot;Ч&quot;, 2012&nbsp;</p>\n
Cambio di decorazione, Orel, 2016\nufficio stampa <p>Cambio di decorazione, Orel, 2016</p>\n
 
1/5
 

A Chicago invece com’è andata?

In America ero finito sulle prime pagine di riviste e giornali, incluso il New York Times dove avevano messo in copertina un frammento di una mia opera.

A Chicago è stato un incubo: era estate, c’erano 40 gradi, un’umidità pazzesca. Facevo il giro dei locali con l’aria condizionata, avevo soltanto voglia di scappare in aeroporto e saltare sul primo aereo per andarmene via! Non riuscivo a capire nessuno, parlavo inglese, ma non lo capivo. Dovevo chiedere dieci volte la stessa cosa per sapere di che cosa si stesse parlando.

Poi ho cominciato a lavorare. E sono successe cose strane… Il mio gallerista Bill Struve ha litigato con la persona che mi aveva ufficialmente invitato in America. Hanno iniziato a dirmi che avevo gli agenti del KGB e della CIA alle calcagna e che dovevo mettermi in salvo. Mi ero accorto che mi stavano ingannando. È stata una situazione davvero strana, ma da quando mi sono messo a lavorare in America sono arrivate subito offerte interessanti e la possibilità di occuparmi di alcuni progetti che in Russia non avrei potuto realizzare. Così ho prolungato il “viaggio di lavoro”.

Vuole dire che il suo “viaggio di lavoro” per scambio culturale aveva una scadenza?

Sì, c’era un limite di tempo. L’ho prolungato una, due, tre volte. Ancora oggi continuo a essere in viaggio di lavoro.

Ed è diventato cittadino statunitense?

Sono cittadino russo e americano. Ho la doppia cittadinanza. Ma mi ritengo un artista russo. Quando mi chiedono “Lei chi è?” dico “Sono Grisha Bruskin”. Se non basta aggiungo: “Sono il pittore Grisha Bruskin”. Se ancora non è sufficiente spiego: “Sono un artista russo che vive in America”. E così via. Ma mi ritengo prima di tutto un artista russo, è naturale, ed è quello che sono.

Quanto tempo ha trascorso negli Usa dalla prima volta?

Dal 1988 vivo un po’ a Mosca un po’ a New York. In alcuni periodi più a New York, in altri più a Mosca.

Viaggio anche in altri Paesi, in Italia per esempio ho lavorato molto e continuo a farlo perché c’è una fonderia d’arte dove lavorano alcuni artisti russi.

Ti potrebbero interessare anche:

Vertov, l’avanguardia si fa classica

Alla Tretyakov si balla tra le opere d’arte

Fotografia, le mostre da non perdere alla Biennale di Mosca

Per utilizzare i materiali di Russia Beyond è obbligatorio indicare il link al pezzo originale

Questo sito utilizza cookie. Clicca qui per saperne di più

Accetta cookie