Aleksandr Solzhenitsyn negli Stati Uniti (Foto: AP)
Quando Aleksandr Solzhenitsyn lasciò l’Urss nel 1974 non lo fece per scelta: privato della cittadinanza, fu espulso dal Paese per il quale aveva combattuto, che lo aveva fatto prigioniero e che era stato descritto nelle sue opere. Il dissidente, insignito nel 1970 del premio Nobel per “Arcipelago Gulag”, venne accolto a braccia aperte dall’Occidente. Tuttavia, per l’intera durata del suo esilio, che si protrasse per venti anni, la Russia continuò a ispirare i pensieri e gli scritti di Solzhenitsyn.
A dispetto di quanto il pubblico occidentale potrebbe supporre, il celebrato scrittore sopravvissuto ai gulag e divenuto portavoce dei diritti umani era un nazionalista estremista e seguiva la dottrina ultra-ortodossa. Furono proprio queste posizioni contrastanti ad impedire all’Occidente di comprenderlo appieno. Cosa accadde a Solzhenitsyn nei decenni che trascorse a Cavendish, in Vermont con la sua famiglia? Le sue opinioni in quegli anni subirono forse un drastico cambiamento, o fu invece l’opinione nei suoi confronti a mutare, per qualche motivo? Un saggio nel Vermont "Gli anni che Solzhenitsyn" trascorse in America coincisero apparentemente con un suo calo di produttività: lo scrittore prese le distanze dall’ambiente che lo circondava e sviluppò un atteggiamento vieppiù critico nei confronti della cultura occidentale.
Suo figlio Ignat Solzhenitsyn non condivide questa visione dei fatti, e in un’intervista rilasciata a Daniel Kalder (The Times, 5 gennaio 2010) spiega che il bisogno di scrivere [la tetralogia] “La ruota rossa” impedì a Solzhenitsyn di immergersi completamente nell’ambiente americano che lo circondava. “Lui stesso diceva che avrebbe voluto potersi concedere il lusso di trascorrere più tempo a raccogliere impressioni, a frequentare gli americani e a viaggiare”, fa notare Ignat. “Sapeva però che ‘La ruota rossa’ richiedeva tutto il suo tempo e la sua energia, e scelse di conseguenza”. La maggior parte di ciò che Solzhenitsyn scrisse in America, compreso “Un granello tra due macine” − il suo resoconto sul periodo trascorso negli States − non è mai stato pubblicato in lingua inglese, e ciò ha impedito ai critici anglofoni di comprendere sino in fondo le idee dello scrittore.
Recentemente il Kennan Institute del Wilson Center ha deciso di contribuire a far luce su questo autore attraverso "l’Iniziativa Solzhenitsyn”. Il progetto, finanziato principalmente da Drew Guff, direttore di Siguler Guff, tradurrà per la prima volta in inglese l’opera autobiografia “Un granello tra due macine” e i restanti volumi della tetralogia “La ruota rossa”. Secondo Joseph Dresen, del Kennan Institute, i primi testi tradotti saranno pubblicati entro la fine del 2015.
L’altro lavoro degli scrittori russi |
Si ritiene che il contributo più significativo prodotto da Solzhenitsyn negli anni dell’esilio sia rappresentato dal discorso che egli tenne nel 1978 per la conclusione dell’anno accademico dell’Università di Harvard. Nell’intervento (che non fu accolto con favore), lo scrittore, in linea con il suo passato da dissidente criticò con veemenza attraverso un traduttore quelli che considerava i limiti e i difetti del mondo occidentale, e lanciò dure critiche al Paese che lo ospitava − lasciando di stucco coloro che si aspettavano invece una dichiarazione di eterna gratitudine verso chi lo aveva aiutato a sfuggire a un governo totalitario. “Il mondo occidentale”, disse Solzhenitsyn, “ha perso il suo coraggio civile, sia nel suo insieme che separatamente - ogni Paese, in ogni governo, in ogni partito politico e, naturalmente, nell’ambito delle Nazioni Unite. Il declino del coraggio è particolarmente evidente tra i gruppi al potere e le élite intellettuale, e genera l’impressione di una perdita di coraggio da parte di tutta la società”.
Solzhenitsyn non misurava le parole, come dimostra il fatto che non avesse avuto remore nel criticare il regime sovietico al culmine del suo potere. L’Occidente non poteva dunque illudersi che questo agitatore politico apolide a cui aveva dato rifugio gli avrebbe risparmiato le sue acute osservazioni.
Felice… solo per il mio lavoro
Tra la fine degli anni Settanta e Ottanta, Solzhenitsyn era considerato dalla stampa occidentale come uno scrittore irascibile e ormai finito. Nella sua intervista a Ignat Solzhenitsyn — oggi acclamato pianista e direttore d’orchestra — Kalder domanda come mai alle opinioni di suo padre fosse stato dato tanto risalto anche quando ormai era considerato un profeta inasprito. “In parte è stata colpa sua”, risponde Ignat. “Aveva un tono politico stridente, non compatibile con il tipico discorso occidentale. Le persone vedevano la barba e sa com’è: due più due fa ‘profeta del Vecchio Testamento’. Ma è da imputare alla frenesia dell’epoca in cui visse. Le persone non capivano il mondo da cui veniva”.
Tuttavia Solzhenitsyn non si limitò a criticare la cultura o la democrazia americane. Nel nel suo articolo “Tradurre Solzhenitsyn” (2004), Daniel J. Mahoney scrive che “Solzhenitsyn non sminuisce ciò che i russi possono imparare dalle esperienze di autogoverno dell’Occidente e dell’America”. In un discorso pronunciato di fronte all’assemblea cittadina di Cavendish, in Vermont, dove abitava, lo scrittore “parlò di come a Cavendish e nelle comunità vicine egli avesse avuto modo di osservare la saggia e decisa opera della democrazia che nasce dal basso, nella quale la popolazione locale risolve la maggior parte dei propri problemi da sola, senza aspettare le decisioni delle autorità. Purtroppo ciò non accade in Russia, e questo è ancora oggi il nostro peggior difetto”.
Dai ricordi dei giovani Solzhenitsyn riguardo alla loro fanciullezza trascorsa in America emerge il ritratto di un padre che li lasciò frequentare le scuole locali, li incoraggiò a imparare l’inglese, gli permise di ascoltare musica come quella dei Black Sabbath (che lui detestava) e che in generale lasciò che i propri figli facessero la stessa vita dei propri coetanei. Ignat si dice certo che il volontario allontanamento di suo padre dalla sfera pubblica fosse una reazione alla sofferenza e alla paranoia che aveva conosciuto in Unione Sovietica, e nascesse anche dalla necessità di scrivere di quelle esperienze. Non sarebbe stata dunque la disapprovazione nei confronti del suo Paese di adozione a spingere Solzhenitsyn a trincerarsi dietro una barriera di filo spinato tra i boschi del Vermont.
Nel suo ritratto dello scrittore apparso sul New Yorker, David Remnick cita Solzhenitsyn: “Dal punto di vita del lavoro, i diciotto anni che ho trascorso in Vermont sono stati i più felici della mia vita”. Suo figlio Yermolai aggiunge: “Tra le mura domestiche mio padre non era certo una specie di orco che odiava l’Occidente”. Daniel Mahoney, che di recente ha pubblicato “L’altro Solzhenitsyn: la verità su uno scrittore e pensatore incompreso”, scrive che “la visione morale di Solzhenitsyn è stata troppo spesso politicizzata in modo da interpretare erroneamente il suo rifiuto dell’illusione progressista come un rifiuto reazionario di ammettere la possibilità del progresso. Eppure, con la sua incrollabile convinzione che un giorno sarebbe tornato in Russia, Solzhenitsyn ammetteva implicitamente la possibilità del progresso”. La sua opera continua ad essere attuale, e “Arcipelago Gulag” si legge in tutti i licei della Russia. Quel che più conta è che le opere a cui Solzhenitsyn dedicò gli anni dell’esilio saranno presto tradotte in inglese.
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