La copertina del libro |
Leggere i Taccuini di Marina Cvetaeva è catapultarsi in un mondo di intellettuali famosi, attori squattrinati e aristocratici decaduti che si muovono in una Mosca, per quei tempi, sorprendentemente bohémien. È una corsa a forte velocità nella vita di una tra le voci più alte della poesia russa, senza tralasciarne nessun aspetto: letterario, familiare, amoroso, sessuale. Marina Cvetaeva fin da piccola riempie taccuini di memorie e versi. In quei piccoli quaderni che spesso è lei stessa a cucire, foglio su foglio, riversa la sua anima senza censure. Questi, tradotti da Voland per la prima volta in italiano (Taccuini 1919 – 1921, in libreria dal 27 febbraio) coprono un arco di tempo che va dal novembre 1919 al marzo 1921.
Sono gli anni successivi alla Rivoluzione. Infuria la guerra civile. L’amato marito Sergej Efron si è arruolato nell’Armata Bianca antibolscevica e Marina – anche lei convinta anticomunista – ne perde le tracce. E sono anche gli ultimi diari prima che la poetessa emigri a Parigi, unendosi alla numerosa comunità di esuli russi. Fin da subito gli appunti di Marina raccontano una realtà amara: la Cvetaeva e le due figlie vivono confinate in una stanza del loro grande appartamento, ora requisito e condiviso con altri. Sono bisognose di tutto. Per comprare farina e pane Marina vende i libri e gli oggetti preziosi che ha in casa. Ma le condizioni di vita sono comunque durissime: "Fa talmente freddo – scrive – che il fiato diventa solido". Eppure, in queste pagine, solo raramente si lamenterà delle privazioni materiali, presa com’è dalla passione totalizzante per la poesia.
Questo della Cvetaeva è più un percorso tematico che cronologico, impossibile da seguire senza l’ausilio dell’imponente corpus di note che lo accompagna e che chiarisce di volta in volta luoghi e volti della Mosca postrivoluzionaria. Scrittura ed esistenza sono l’una lo specchio dell’altra: "Sono appassionatamente assorbita dai taccuini. Tutto quello che sento per strada, quello che dicono gli altri, quello che penso io". Marina fissa ogni cosa. Gli eventi del quotidiano danno vita a personaggi e trame che rivivono nelle sue poesie, di cui è autrice instancabile: "Non ho mai dovuto cercare i versi. I versi stessi mi cercano, e per di più con una tale abbondanza che davvero non so cosa scrivere, cosa eliminare".
Una parte preponderante dei suoi diari è dedicata alla figlia maggiore, Alja. Precocissima, intelligente. A sette anni compone già versi per emulare la madre. Marina non nasconde la sua predilezione per questa bambina che sente così simile a lei e, allo stesso tempo, l’incapacità di amare la più problematica Irina, due anni. Nei taccuini riporta le lettere affettuosissime che lei e Alja si scambiano nel periodo in cui le bimbe sono affidate ad un orfanotrofio, nella vana illusione che lì abbiano più cibo e cure. Irina però muore ugualmente di malnutrizione. Appresa la notizia, Marina vive il suo dolore lasciando 25 fogli bianchi nel quaderno. Talvolta la sognerà, ricordando la bimba con profondi sensi di colpa e una tenerezza struggente.
I lutti e le difficoltà non le impediscono di innamorarsi con frequenza, infiammandosi ora per una giovane attrice – ebbe diverse relazioni lesbiche – ora per un promettente scrittore o, ancora, per un fervente comunista. Ma si tratta di relazioni spesso più cerebrali che fisiche, destinate inevitabilmente all’infelicità. E le infatuazioni che sembrano così tanto assorbirla svaniscono di fronte al pensiero del marito: "L’unico vero miracolo della mia vita – confessa – è stato il mio matrimonio". Di Sergej indossa persino gli stivali, di diverse taglie più grandi, solo per sentirlo più vicino. A dispetto del pensiero della morte che pure è costante durante tutta la sua vita – morirà infatti suicida nel 1941 – Marina è una donna forte e allegra. Nei suoi taccuini usa spesso appuntare frasi lapidarie che oggi restano con l’efficacia di un aforisma: "Non ho bisogno di colui al quale non sono indispensabile"; "Dio ha creato l’uomo solo fino alla vita, per il resto si è dato da fare il Diavolo". E ancora: "A vincere la vecchiaia, come la giovinezza, mi aiuterà l’ironia".
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