Solaris (1971)

Tarkovskij e il corpo a corpo con la storia, con l'immagine, con le promesse mancate della Rivoluzione. La fantascienza come luogo dove criticare, costruendo un nuovo mondo

Un titano del Cinema. Alle prese con una continua, terribile, ricerca: entrare nell'immagine. Trasportare lo spettatore, gli attori e tutti i soggetti coinvolti dal cinema in uno spazio puro, uno spazio quasi pittorico, dove far sciogliere la consistenza delle vite nella classicità della pura rappresentazione. Un'ambizione irraggiungibile – l'esistenza non si raffina, ne si trasfigura - eppure sempre ricercata. L'intera carriera di Andrej Tarkovskij è questo sforzo titanico. Una carriera fatta di una manciata di film e che trova in Solaris, 1971, tratto dall'omonimo romanzo di Stanislaw Lemuna, una delle sue tappe fondamentali.

Il plot di Solaris è noto, anche grazie al remake girato nel 2002 da Steven Soderbergh. Kris Kelvin psicologo, è in partenza per una base stellare nei pressi del pianeta Solaris. Prima del viaggio riceve la visita dell'ex astronauta Henri Berton, un amico di famiglia, che lo mette al corrente delle strane teorie che circolano sul pianeta: che non sarebbe altro che la protesi materiale di un enorme cervello.

Kelvin raggiunge la base spaziale e lì inizia a fare esperienza di strani fenomeni. Rivede la moglie, morta suicida oltre dieci anni prima. Strani esseri attraversano l'astronave. Il tempo sembra non avere direzioni. Lo psicologo cerca di farsi una ragione di tutto, in un continuo dialogo con Snaut e Sartorius, due scienziati ospiti della stazione orbitante. E tutte le analisi sembrano ricollegare i fenomeni all'attività elettromagnetica del pianeta. Poi il ritorno: tutto finisce dov'era iniziato, nella dacia di campagna della famiglia Kelvin.

Fantascienza, certo. Ma utilizzata solo come pretesto per tradurre in immagini il tentativo di Tarkovskij di costruire un cinema in grado, ancora, di fare a meno del soggetto concreto, una macchina autonoma che interroghi e metta in discussione le certezze acquisite. Il cervello pensante di Solaris come il Monolito di Kubrick in 2001 Odissea nello Spazio: la rappresentazione dell'altro, del totalmente altro da se, un luogo capace di cancellare con la sua sola presenza anche la certezza ultima su cui si basa la vita umana: lo scorrere del tempo dal passato al futuro. Ne più ne meno che il cinema: un non-luogo – come il cervello pensate o il Monolito, appunto – dove vige la compresenza dei tempi, lo scivolare, l'uno nell'altro, di presente passato e futuro.

Una dimensione molto vicina a quella dell'infanzia, spesso definita da Tarkovskij come “la base prima che sostiene tutta la mia attività creativa: perché da piccoli si ha quasi la certezza che tutto sia possibile, che tutto sia realizzabile”.

Una certezza che è lo stesso scorrere del tempo, la stessa crescita personale, a mettere in discussione. E che proprio il cinema, “il mistero del cinema, quest'immenso mistero, può mantenere viva”. Perchè lo sguardo del regista è vicino, parallelo, a quello del bambino. Ancora Tarkovskij: “Il mio carattere somigliava a quello di una pianta: non pensavo molto, ma percepivo, sentivo”. Una dimensione restituita appieno nel primo film del regista russo, L'infanzia di Ivan, Leono d'oro al Festival del Cinema di Venezia nel 1962.

Ma Solaris è anche il ponte verso un altro capolavoro di Tarkovskij: Stalker. Anche qui, infatti, un lento viaggio dove l'introspezione, la realtà mobile del pensiero diventa l'unico terreno a disposizione se si vogliono indagare i meccanismi che regolano l'esistenza.

Si scivola, attraverso le immagini del film, in una “Zona” dell'essere dove le conoscenze e le certezze dei protagonisti vengono messe in discussione. Un inno alla “debolezza” del pensiero come chiave per entrare in contatto con la parte autentica della vita. Perché “rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza”. Parole dello Stalker, che possono essere messe in calce a tutto il cinema di Andrej Tarkovskij.

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