In un unico, lento, sublime movimento di macchina, aveva attraversato tutto l'Ermitage di San Pietroburgo, mostrando le stratificazioni dell'umanità, le stratificazioni dell'autoscoscienza del mondo che si incarna nell'arte, nelle immagini. E con un simile, più breve, movimento di macchina, si apre anche il suo Faust: dagli astri, dal cielo limpido, oramai luogo dove vige l'assenza di valori e di stabilità in grado di fondare l'esistenza stessa, fino a un cadavere in decomposizione, fino al corpo che smette di essere tale per trasformarsi in carne inerme. Dall'eterno alla finitezza. Tutto l'arco da attraversare per chi non dismette la ricerca del senso, dell'anima, del nucleo di significato nascosta nella vita umana.
E' uno dei maestri nel raccontare cosa sia il potere. Cosa siano le sue deformazioni, i suoi tentacoli. E quali siano i suoi effetti sull'umanità. Con il suo Faust, Aleksander Sukorov arriva alla fine della sua tetralogia ispirata dagli abissi del potere: Lenin, Hitler, Hiroito. E Faust, appunto: il luogo simbolico sui cui si fondano le altre tre figure. Perchè cos'altro è il potere se non la manifestazione massima della tracotanza, dell'eterna tentazione cui è sottoposto ogni essere umano alla ricerca di se stesso? L'incontro con il demonio, con il demone che sussurra che la vita non è angusta, che la vita non è misera, che invita a obliare i limiti che dovrebbero essere custoditi da ogni essere. La verità della morte, cancellata.
La storia di Faust è nota. Qui basta richiamare i dialoghi che Sukorov mette in atto: respira con Goethe, ricerca con Thomas Mann il senso nascosto nelle parole, dà forma alle visioni di Marlowe. Affronta gli abissi nascosti nello spirito dell'Europa. Mostra, in immagini allo stesso tempo asfissianti e corali, patinate e inquietanti, le contraddizioni che scorrono sotto l'Europa, Meglio: sotto l'idea del progresso a tutti i costi, della volontà dell'uomo che si innalza sulla natura, violentandola, trasformandola in un impianto funzionale alla sua glorificazione terrena. E lo fa con un cinema che sembra, qui, essere al massimo del suo potenziale estetico.
Non solo questo. Anzi. Così come la ricerca di Faust nasce dall'anatomia, dall'analisi dei particolari del corpo, quella di Sukorov parte dall'anatomia del potere, dalle manifestazioni microscopiche del dispositivo che da forma alle degenerazioni dell'oggi. Lo ha detto egli stesso, in molte interviste: “Per me Faust non è mai stato una figura mitologica, ma una persona reale, viva. Come, del resto, altri personaggi della mia tetralogia sul potere. Il loro posto nella storia è un completamento delle loro personalità. “Faust” in tedesco significa “pugno”. Ebbene, la tv è un pugno, un pugno diabolico”.
Da Goethe alla videocrazia. Sempre nel segno delle tentazioni cui l'uomo non riesce a rinunciare: prima la conoscenza, adesso l'apparenza. Ed è seguendo questa direzione che si può scorgere uno dei sentieri che attraversano il Faust di Sukorov. La denuncia dell'apparenza fatta con uno strumento che si nutre e si muove di apparenze: il cinema. Un'operazione possibile proprio perchè il cinema che prende sul serio se stesso sa di essere tutt'altro che apparenza. Sa' di rappresentare un luogo in cui l'apparenza viene fermata, trascesa, anestetizzata dai suoi orpelli.
E come in ogni suo lavoro, Sukorov riesce a dare alle sue immagini non solo profondità di campo. Ma profondità storica. Quella storia sempre più dimenticata e reinventata dalla regina incontrastata del villaggio globale: la televisione. Un maestro della cinematografia che, a differenza di Faust, non cede mai al potere dell'immagine, non si stanca mai di rendere problematica ogni superficie, ogni inquadratura.
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