Un viaggio, nelle persistenze sommerse dagli ultimi trent'anni della storia del Paese. Dove i settantadue metri sono quelli del sottomarino Slavianka, e le acque che attraversa non sono solo quelle reali, le gelide distese che legano la Federazione al Polo Nord. Ma sono acque metaforiche: quelle oscure e pericolose che - fuoriuscite dalla storia recente del paese - hanno sommerso il passato prossimo e quello remoto di una nazione. Cancellando o nascondendo la coscienza della propria grandeur, dell'importanza della propria storia, delle radici su cui si è edificata un'intera società.
Ma, nonostante quest'impianto concettuale, Settantadue Metri resta lontano anni luce dalla mera rievocazione nostalgica o dal rifugiarsi in un nazionalismo sterile che ha come unico effetto quello di calare una benda sugli occhi di chi dovrebbe analizzare la complessità della società russa per prepararla alle sfide che la aspettano nel ventunesimo secolo. Perché le acque che si attraversano sono anche quelle della tradizione del cinema realista sovietico: Settantadue Metri è la ricerca che Vladimir Khotinenko, il regista, compie verso le origini della propria arte cinematografica che ha influenzato quella di mezzo mondo. Costruire miti, ridar vita a un'epica in grado di fornire una metafora in immagini del paese, sovrapponendo il piano pubblico e quello privato.
Il centro della storia ruota intorno alle vicende di Peter Orlov e di Ivan Myraviev, marinai che stanno prestando servizio sul sottomarino. Prologo: Ci troviamo proprio agli albori della perestroica, nel 1986. I due vengono assegnati alla base di Sevastopol, dove incontrano Nelly, una ragazza di cui i due si innamorano all'istante. Nelly sceglie Ivan. E la scelta ha come effetto principale quello di rompere l'amicizia tra i due commilitoni. Stacco: passano alcuni anni e nel 1990, dopo la fine dell'Urss, il sottomarino è impegnato in un'esercitazione militare. Poi scompare dai radar. Se ne perdono le tracce e i tentativi di mettersi in contatto restano senza effetto. Una catastrofe si avvicina. Tutto, come detto, filtrato dall'occhio classico di Khotinenko.Una ricerca che, però, non ha registrato il plauso unanime della critica e dei commentatori. Tante le accuse, una su tutte: quella di proporre una visione nazionalistica, ai limiti del razzismo, verso i “vicini” della Federazione, Ucraina in testa. “Filoputiano”, “ligio ai comandamenti di Putin”, “acritico esecutore della visione del governo”, queste le principali accuse rivolte al regista. In realtà, c'è molto di più. C'è uno sguardo lanciato a sondare uno dei momenti più bui del passato recente della Federazione.
Il 12 agosto del 2000, il K-141 Kursk, un sottomarino nucleare è impegnato in un'esercitazione al largo del mare di Barents. Alle 11 e 28 vengono lanciati i primi siluri a salve. Ma qualcosa va storto. A bordo si sentono delle esplosioni. L'onda d'urto è terribile, 2,2 gradi della scala Richter. Il sottomarino va in avaria e sia adagia sul fondale. A bordo, ci sono 108 marinai. Dopo poco più di due minuti, una seconda esplosione che sommerge di detriti il sottomarino. Le paratie iniziano a cedere. L'acqua, con lentezza, penetra nello scafo. L'ossigeno inizia a diminuire. Dopp sette giorni e numerosi tentativi di soccorso, la nave norvegese Normand Pioneer aggancia il sottomarino oramai completamente allagato. Neanche un briciolo d'aria. Nessun superstite. Inizia la ricerca delle cause. In un incubo da guerra fredda vengono chiamate in causa anche navi statunitensi che erano a cinque miglia dal K-141. Nel 2002, la versione ufficiale: siluri difettosi.
Al di là di semplificazioni morali, il cinema di Khotinenko, come tutto il cinema degno di questo nome, usa le immagini, le apparenze per andare al di là delle stesse. Per mettere in prospettiva eventi, sensazioni, drammi. Per osservare meglio ciò che muove la superficie. Per ricostruire il territorio – semantico, storico, spirituale – in cui accadono le tragedie che segnano la vita di una nazione.
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