Brat (1997)

I reduci di un impero disgregato, nel deserto sociale degli anni '90. Il cinismo e il disincanto. L'osservazione spietata di Balabanov

È uno dei giorni maledetti della storia recente della Russia. 20 settembre 2002, Ossezia del Nord. Un pezzo di ghiaccio si stacca dalla montagna che sovrasta il villaggio di Nijni Karmadon. Prima quasi un fruscio. Che si trasforma, inesorabilmente, in un boato. Non resta nulla. Sotto una massa bianca vengono inghiottite 127 persone. Un giorno maledetto anche per il cinema della Federazione. Perché proprio quel giorno, proprio in quel luogo, Sergei Bodrov, appena 31enne, attore e regista tra i più promettenti della sua generazione, muore con la sua troupe. Il sopralluogo a Nijni Karmadon gli è stato fatale.
Passo indietro. E' il 1997 è Bodrov, che ha iniziato la sua carriera di attore solo un anno prima, presta il suo volto a uno degli eroi del cinema russo contemporaneo: Danila Bagrov, reduce dell'esercito, protagonista di Brat, uno dei primi film che analizza, con precisione chirurgica e senza nessuna mania di perbenismo, la nuova nazione, quella Federazione nata dalle ceneri dell'impero sovietico. Tutt'altro che documentario, però. Anzi. Cinema di massa, rivolto ai cittadini, alle loro vite scivolate, anno dopo anno, nell'abisso dell'insicurezza. Brat si apre con un omaggio alla cinematografia. Danila piomba in un set. Un film nel film. Cui segue una discesa che toglie il respiro in quello Stato nello Stato rappresentato dall'universo malvagio della criminalità organizzata.

L'ex reduce si trova ad avere a che fare con sicari, omicidi, missioni punitive. E la violenza non è mai fine a se stessa. La macchina da presa, gli occhi dei protagonisti, si muovono nell'esasperato tessuto sociale della Russia durante il governo di Boris Eltsin. Un Paese perennemente sotto schock, senza bussola, un territorio di conquista attraversato dai moderni corsari: spregiudicati finanzieri, politici senza scrupolo, forze dell'ordine corrotte, malviventi che scelgono la strada del crimine per cavarsi fuori da un quotidiano fatto di stenti, umiliazioni, impossibilità di qualsiasi auto-realizzazione.

Tutto passato al setaccio, tutto analizzato sin nei minimi dettagli da un altro eroe del cinema russo. Cappellino da baseball calato in testa, capelli lunghi sul collo, barba folta. Lo sguardo perennemente alla ricerca di quel dettaglio capace, da solo, di risolvere un'inquadratura, di dare senso alla storia con la sua sola presenza. Dietro la macchina da presa di Brat c'è Aleksej Balabanov, allora neanche quarantenne. Un passato da traduttore nell'esercito sovietico. Balabanov non fa altro che dar forma ai propri incubi: quelli privati, emersi dopo la fine dell'Urss.

E quelli pubblici, appartenenti alla generazione di cui fa parte, una generazione, appunto, senza bussola, priva di qualsiasi orientamento, incapace di trovare punti di riferimento perchè, semplicemente, i punti di riferimento non esistono più. Esiste solo l'intreccio tra malaffare e criminalità, tra corruzione e violenza. Mostri invisibili che Balabanov, per raccontare la storia di Brat colloca in quella terra di nessuno rappresentata dalla Cecenia di fine milennio.

Perchè lì i fratelli — i brat — non possono essere realmente tali. Perché lì si vive nella dissimulazione totale, assoluta. Vengono messi l'uno contro l'altro da circostanze mai prevedibili. E Balabanov non suggerisce mai facili condanne e assoluzioni morali. Si limita a mostrare, a raccontare agli spettatori che le storie che ciascuno di loro vive ogni giorno sono universali nel loro essere diffuse, comuni. Fa del cinema un luogo collettivo dove poter tentare la costruzione di un nuovo senso di comunità, suggerendo che proprio questa costruzione passa attraverso la presa di coscienza delle ferite della società. Mai cancellando il dolore. Abolendo la nostalgia. Perché, utilizando le parole di William Faulkner, uno dei miti letterari di Balabanov, il punto è “il tornare indietro: porta male il tornare indietro”.    

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