Ventun’anni fa, nel 1992, in questo periodo, festeggiava l’Oscar conquistato con "Mediterraneo", pellicola che affascinò i giurati dell’Academy per quella sua poetica della fuga. Quella statuetta, considerata da Gabriele Salvatores, "un colpo di fortuna (l’espressione è stata ben più colorita, ndr)", non è stata un punto di arrivo, bensì l’inizio di una nuova avventura che, regia dopo regia, l’ha portato fino a "Educazione siberiana", film in uscita nelle sale italiane il 28 febbraio 2013, tratto dall’omonimo romanzo d’esordio di Nikolai Lilin.
"Per la colonna sonora di Educazione siberiana, io e Gabriele ci siamo posti una domanda: quanto russi dobbiamo essere? Quanto dobbiamo essere fedeli alle tradizioni? – afferma Mauro Pagani, autore della colonna sonora già direttore musicale della 63ma edizione del Festival di Sanremo -. Sono così partito dalla mia conoscenza della musica balcanica, ci ho aggiunto qualche mese di cori russi e dell’Armata Rossa, non quella ospitata al Festival di Sanremo (ride). Qualche difficoltà l’ho avuta, ma mi ha confortato il fatto che, essendo un film sulla nostalgia del ricordo, in fin dei conti, non era necessaria la perfezione del coro di duecento cosacchi, ma l’immaginario di quel coro"
"Quell’Oscar mi ha permesso di provare a fare qualcosa di diverso – spiega Gabriele Salvatores -. Volevo percorrere territori cinematografici inusuali per il cinema italiano: Educazione siberiana rientra in questi territori, in quel tipo di cinema che ho sempre sognato sin da quando mi sono innamorato del cinema epico di Lawrence d’Arabia e C’era una volta in America. Ho raccontato la Siberia di Lilin come il mio Far East, un ambiente di frontiera con regole proprie, senza però alcun intento sociologico, politico o documentario. Il film, infatti, parla del passaggio dall’infanzia all’età adulta di due ragazzi in un’Europa in fase di cambiamento".
Ha scelto lei di trarre un film da Educazione Siberiana?
No, quando Cattleya me l’ha proposto non conoscevo il libro. Leggendolo, però, ho trovato tanti personaggi e aneddoti, molte idee e concetti condivisibili come la grande verità di nonno Kuzja: Un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore può amare. Nel libro e nel film è una cosa detta da un criminale, un uomo dalla morale non condivisibile, che però, non vogliatemene, dice cose più condivisibili di quelle che dicono molti politici di oggi.
È vero che ha cambiato il finale del film?
Non concettualmente, solo scenicamente. Nei test screening effettuati a Londra il pubblico ha espresso il desiderio che i due personaggi si spiegassero tra loro con le parole e non attraverso la scena intensa, ma silenziosa, che avevo scelto. Così abbiamo rigirato il finale allungando quella scena.
Il film è fedele al libro?
Pur essendo somigliante, il film è molto diverso dal libro, che è molto più violento e più crudo. Però Nikolai (Lilin, ndr) ha detto che sua madre è stata molto commossa dalla trasposizione che, voglio ricordarlo, è un romanzo, non una biografia e nemmeno un libro di denuncia. Non è Gomorra, per capirci. È un libro basato su alcuni ricordi di Lilin e di altre persone. È una storia un po’ mitica, sospesa nel tempo. Quindi, non abbiamo cercato il realismo, ma il ricordo di quei posti.
Come mai non avete pensato di girare in Transnistria, lì dove era ambientato?
"Non ero in grado di porre condizioni a una produzione che ha investito 9 milioni di euro – chiarisce Nicolai Lilin, autore di Educazione siberiana, che è stato coinvolto nella stesura della sceneggiatura -. Se avessero deciso di girare a Irkutsk o in Siberia io sarei andato e sarei stato contento. Penso sia stata scelta la Lituania forse perché era più conveniente a livello economico e perché c’è una forte comunità russa che continua a mantenere i legami con le proprie radici, aprendosi nel contempo all’Occidente. A me sarebbe piaciuto fosse stato girato in Transnistria, dove sono nato e cresciuto, ma dopo un sopralluogo nel 2009, è stata abbandonata l’idea perché c’è una burocrazia di tipo sovietico e, visto che l’Occidente parla male di quella terra, siamo stati invitati ad andar via"
Nikolai aveva chiesto di non girare né in russo, né in Russia quando aveva ceduto i diritti ai produttori. Girare in inglese aveva un senso per aprire il mercato. In Russia ci sarei andato volentieri, ma alla fine abbiamo girato in Lituania. Abbiamo dovuto ricostruire un mondo, cambiare tutte le scritte che lì non sono in cirillico e non solo. È stato un lavoro complesso, ma il grosso vantaggio è che certe cose nelle repubbliche ex sovietiche sono uguali dappertutto: le città coi grattacieli, i vecchi quartieri con le casette di legno. A Vilnius, abbiamo girato le scene del quartiere siberiano in un posto chiamato Shangai, che sopravvive perché è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità, circondato da palazzi modernissimi. Il nostro, alla fine, è stato un lavoro a metà tra la realtà e l’immaginario dell’Est.
Come ha approfondito la storia?
Ho fatto l’unico lavoro che consideravo possibile. Dal momento che si trattava di un racconto epico e mitico, mi sono riferito a quello che Lilin mi ha raccontato e ad altre cose che ho letto. Ma, soprattutto, ho fatto riferimento alla letteratura e al cinema russo che amo. In campo letterario ci sono riferimenti riscontrabili di Dostoevskij e Tolstoj. Poi c’è il grande cinema russo, e qui le citazioni non finirebbero mai. Anche i colori e le inquadrature utilizzate nel film mi hanno fatto entrare nel mio mitico sogno della Russia: gli spazi enormi, il freddo, che non è freddo vero perché il popolo russo è molto caldo pur nella freddezza tipica di quel Paese. Ho provato a restituire vastità, lontananza e malinconia, che io da napoletano riconosco. Ci sono molti più punti di contatto di quanto si possa pensare tra un napoletano e un russo.
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Qual è la differenza che trova tra l’educazione siberiana e quella italiana?
Non si tratta di un’educazione in sé. Se vogliamo trovare un punto di similitudine tra i due mondi potrebbe esserci, semmai, con quella della nostra mafia tra la fine dell’'800 e l’inizio del ‘900. Anche lì c’erano regole, codici d’onore, la “famiglia”. Con la modernità, e non credo che sia soltanto un fenomeno di globalizzazione, il concetto di Stato non è stato più vissuto come qualcosa che appartiene a tutti, ma come un soggetto che impone. Questo ha creato un certo tipo di consumismo anche all’interno della malavita facendo crollare i codici etici d’onore. Questa è una cosa che la mafia e la camorra dei vecchi riconosce. Trasponendo nel mondo di oggi, in Italia e nell’Occidente in generale, si è persa la figura del maestro, del padre. In generale si sta perdendo quella facoltà di dire a un figlio, o a chi deve imparare, qualcosa di assoluto, anche correndo il rischio di essere smentiti.
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