Il successo delle auto sovietiche

Una “Zhiguli” parcheggiata a Vorobyevy Gory a Mosca (Foto: Ria Novosti)

Una “Zhiguli” parcheggiata a Vorobyevy Gory a Mosca (Foto: Ria Novosti)

L’esportazione di alcuni marchi prese più della metà della produzione delle fabbriche nazionali, creando un deficit di automobili nel mercato interno dell’Urss. Alcune storie di vetture emigrate in Occidente

L’esportazione delle auto sovietiche prese più della metà della produzione delle fabbriche nazionali, creando un deficit di automobili nel mercato interno dell’Urss. Così, a differenza della maggior parte dei cittadini sovietici queste macchine riuscirono a fare un giro in Occidente. Vi proponiamo di leggere le storie di alcune automobili sovietiche emigrate all’estero.


La Lada in Inghilterra
“Quando ho preso la patente, nel 1984, nel portafoglio avevo soltanto 100 sterline per comprarmi la macchina. Una somma modesta, e anche la scelta non era ampia. Allora ho dato un’occhiata alla colonna delle inserzioni nel Bristol Evening Post e ho visto una Lada 1200 del 1973 che andava bene per le mie tasche”. Questo è il ricordo del cruciale acquisto dell’inglese Stephen Floyd di cui parla sul sito dedicato alla produzione originaria di Togliatti. Già all’epoca acquistare una macchina del genere era un evento insolito.

In seguito, dopo aver cambiato qualche auto, Stephen si dà alle famigerate “Zhiguli”, ma già di un modello più avanzato: la Lada 1600, da noi conosciuta come VAZ-2106. La scelta è fatta con coscienza: né la Niva né la Riva (così chiamano in Gran Bretagna la 2105 e la 2107) gli vanno a genio. La sua invece la trova a Coventry, una Lada 1600ES del 1979. Era rimasta dieci anni in uno stretto garage, senza mai uscirne fuori; Stephen decide subito di comprarla, dopo un’occhiata di sfuggita a un frammento arrugginito del parafango anteriore.

Offre 200 sterline al venditore; il prezzo era assolutamente di mercato, dato che soltanto un esperto di rottami avrebbe potuto rimetterla in sesto. Stephen si mette a smontarla completamente “fino all’ultimo bullone”, più o meno nello stesso modo in cui si rimettono a nuovo le Rolls-Royce d’epoca dell’inizio del Novecento.

Alla fine la Lada diventa più bella che se fosse stata nuova e inizia a prendere parte agli eventi del Lada Owners Club of Great Britain. Al di fuori di quel contesto la Lada suscita il più delle volte un sorrisetto sarcastico. Lo stesso che ha scatenato la recente notizia secondo cui AvtoVAZ(società automobilistica russa nata dal 1966; l'’abbreviazione sta per Volzhskij Avtomobilnyj Zavod, ovvero Fabbrica automobilistica del Volga, ndr) ha intenzione di tornare sul mercato britannico. Tra una battuta e l’altra gli esperti assicurano che sul mercato automobilistico della penisola britannica si registra una significativa mancanza di modelli base, alla portata di tutti.

La VAZ in Francia
Il francese Jean-Jacques Poch è stato l’unico esportatore ufficiale di VAZ in Francia e quando nel 1977 è comparsa la Niva ha perso la testa. “Era il primo autentico fuoristrada al mondo, e in più era resistente e a buon prezzo. Prima esistevano soltanto dei veicoli militari pesanti, ma non era per niente la stessa cosa”.

Nomi ambigui

La marca di produzione della città Togliatti ha dovuto modificare per le esportazioni il nome “Zhiguli” con “Lada” per la sfortunata assonanza con la parola “gigolò” il cui significato non era così noto tra i lavoratori del Paese dei soviet

È stato proprio Poch a essere tra i primi a trasformare le jeep sovietiche in cabriolet, tagliando via la parte posteriore del tettuccio; dal 1983 al 1989 assembla più di mille Lada Niva Cabrio con motore diesel Renault. Già nel 1978 riassetta due Niva per farle partecipare al rally della Parigi-Dakar, dove arrivano 28ma e a 42ma. Nell’edizione del 1980 la Niva Proto conquista il 19mo posto e l’anno seguente la Lada Poch 1800 si piazza terza. 

Nel 1982 Poch conosce Marcel Morel, proprietario dell’azienda Maurelec, che gli propone di installare sulla Niva un motore V6, e non sotto il cofano, ma dentro il vano, dietro ai sedili posteriori. Nel Rally d’Algeria al volante di quel mostro Jean-Claude Briavoine si classifica terzo. Nel 1983 la potenza del motore arriva a 290 cavalli e nel 1986 a 310.

Sull’ultimo modello compaiono portiere, cofano e sportello del bagagliaio in fibra di carbonio che ne alleggeriscono il peso; Pierre Lartigue raggiunge le prime posizioni nel Rally di Tunisia e arriva quarto nella Parigi-Dakar. Un anno dopo Poch riveste in carbonio la scocca del telaio tubolare, sistema Jacky Ickx al volante, ma arriva soltanto 38mo. Secondo voci di corridoio il proprietario della Lada Poch al carbonio è lo stesso Jacky Ickx e altre due macchine da rally sono di proprietà di Poch, che si rifiuta categoricamente di metterle in vendita. È ancora lui che, a differenza di molti nostri connazionali, ha guardato fino all’ultimo con ottimismo alla produzione dell’AvtoVAZ, lavorando con entusiasmo al modello della Lada Samara.

La Zaporozhec in Germania
“Saporoshez wird ihnen Freund und Helfer sein” (“La Saporoshez è vostra amica e compagna”): cercava di persuadere il volantino pubblicitario tedesco dell'Avtoeksport (Fabbrica automobilistica russa, ndr). Gli stessi tedeschi chiamavano questa macchina “tamburo della taiga”, “T-34 de luxe” oppure “l’ultima vendetta di Brezhnev”. Ma per il perito elettrotecnico Jurgen Neugebauer della Repubblica Democratica Tedesca era l’unica soluzione per entrare rapidamente in possesso di un’automobile; negli anni Settanta, se non avevi dei privilegi sociali come le “raccomandazioni” o le “giuste conoscenze”, si poteva aspettare qualche anno per la nuova Trabant o la Wartburg.

Nel 1977 la nuovissima Zaporoshez-968M costava 12.000 marchi che in alcuni anni Jurgen e sua moglie avevano messo da parte, risparmiando su tutto e togliendo un centinaio di marchi al mese dai loro stipendi di 500 e 600 marchi. Alla fine la “cartolina per l’automobile” arriva, per posta, come ai comuni cittadini sovietici, appena un anno dopo essere entrati in lista d’attesa.

Il commerciante del concessionario di Brandeburgo accompagna subito Neugebauer alla Zaporozhec color banana e senza battere ciglio consegna le chiavi: ai tempi del socialismo nessuno si immaginava di poter scegliere il colore che voleva. Prendi quello che c’è al bancone, finché te lo danno. Da allora la Sapo – come chiamavano l’automobile in Germania – è parte della famiglia. In questi anni l’hanno rimaneggiata alcune volte, cambiando persino la scocca dopo un incidente.

Nei raduni di club, Jurgen è un’autorità indiscussa: chi altro può parlare dell’acquisto di pezzi di ricambio attraverso conoscenti o del cambio automatico del cuscinetto dell’assale anteriore che ha dovuto prendere in prestito dal vicino? Vendere questo “pezzo di vita” per lui è semplicemente impensabile, da oggetti del genere – conquistati tra mille difficoltà – non ci si può separare.

La Vittoria negli Usa
Nel 1952 sulla rivista americana Motor Trend apparve un articolo su un certo Stanley F. Slotkin che aveva portato in America dalla Finlandia l’automobile sovietica “Pobeda” (“Vittoria” in russo, ndr). L’uomo, a quanto pare, trovandosi a Helsinki per affari ed essendo in ritardo, avrebbe fermato un taxi e si sarebbe buttato automaticamente sul sedile posteriore, rendendosi conto soltanto in seguito dello strano interno dell’abitacolo.

Dopo aver scoperto dal taxista che era una “Pobeda” dell’Urss, Slotkin volle immediatamente comprarne una uguale. Segue il racconto dell’americano sul fatto che fosse impossibile comprare e portare negli Usa quel modello e per farlo dovette diventare un contrabbandiere.

Nell’articolo sono descritte in modo pittoresco le ricerche per trovare la macchina, l’acquisto illegale di una “Pobeda” rubata, lo smontaggio in pezzi, l’imballaggio in un container, il battito del cuore accelerato e la gola secca al controllo doganale. A cosa gli serviva tutto questo? Esclusivamente a farsi un po’ di pubblicità e ad alzare il prezzo della vettura, che in effetti nel 1952 poteva essere davvero l’unico esemplare di GAZ-M20 negli Stati Uniti; questi pensieri si possono facilmente leggere tra le righe: “Slotkin non ha intenzione di viaggiare sulla sua nuova Pobeda, ha già altre macchine che gli piacciono di più. In compenso vorrebbe darla in esposizione alle associazioni di beneficenza. Anche se avesse deciso di usarla, gli sarebbe riuscito molto difficile immaginarsi di andare a Gorkij per prendere i pezzi di ricambio”.

“È l’unica macchina che non sperimenterà mai i vantaggi della garanzia a sei mesi. Dopo le disavventure che ho passato portandola qui dalla Russia non ho alcun desiderio di riportargliela indietro”. 

La Volga in Germania
Nell’autunno del 2002 Horst Jesche, promettente impiegato di una società finanziaria di Francoforte, ha visto per la prima volta nella sua vita l’automobile Volga GAZ-3111 e gli è scattata un’idea dell'affare. Ecco un frammento dell’intervista con il tedesco: “Abbiamo deciso di vendere la Volga agli appassionati che hanno già altre macchine – Mercedes, BMW – e ai quali piace spaventare un po’ i crucchi con i tank russi quando vanno in chiesa. Passargli accanto su una macchina così. O-e-e!”.

Secondo i piani la vendita sarebbe stata di 200 auto all’anno, ma la fabbrica di Gorkij, che assemblava il modello 3111 letteralmente “in ginocchio”, poteva fabbricarne soltanto 10-20. Qual era la differenza da un’esclusiva serie limitata?! La Volga ha affascinato il signor Jesche con la sua semplicità tipicamente russa. Per sua stessa ammissione in quella vettura non c’erano pulsanti inutili, interruttori, display e altri fronzoli simili. Quando però il tedesco si porta in patria la prima Volga capisce che qualcosa di superfluo ci deve comunque essere, visto che sull’autostrada la “bagnarola” sbanda a destra e a manca. Deve prendere degli ammortizzatori adatti, oltre a una quantità di accessori.

Nel frattempo Horst rilascia interviste di qua e di là, raccontando del suo progetto e predicando ai manager del GAZ: “Non bisogna vendere la macchina, ma le sensazioni che provi quando ti siedi alla guida. Bisogna vendere l’immagine e fare in modo che l’auto le corrisponda. Questo passo non era ancora stato fatto. Ho capito molto in fretta che si poteva portare la macchina a un livello decente con dei semplici accorgimenti. E sono contento di aver trovato delle persone che mi hanno appoggiato”. Secondo fonti ufficiose nel 2007 è riuscito ad assemblare 7 Volga, tra l’altro non in Russia, ma in un piccolo laboratorio di Saarbrucken. L’informazione non è verificabile, dato che le ultime notizie su Horst Jesche risalgono al 2012, quando cioè il modello era già andato da tempo fuori produzione. Alla domanda sul perché il progetto in Russia non si sia potuto realizzare ha risposto semplicemente: “Un gran casino”.


UAZ in Giappone
Al posto di macchine piene zeppe di automatismi, molti giapponesi ora preferiscono le russe UAZ, a dispetto del fatto che in Giappone il loro prezzo è piuttosto considerevole e, come se non bastasse, richiedono anche una frequente manutenzione. Mitiomi Suzuki, conducente di tram, cinque anni fa è passato dal fuoristrada giapponese alla UAZ e assicura di non avere nessun rimpianto. Nell’automobile russa ha trovato quello che manca ai modelli dei produttori giapponesi: un prezzo elevato associato a un minimo comfort.

“Nelle macchine giapponesi di oggi è tutto troppo automatizzato -, sostiene il padrone della UAZ. - Tra un po’ il guidatore non dovrà nemmeno più stare al volante; qui invece sei tu a gestirla per davvero. Mi piace tutto, il volante pesante, il cambio marce, gli scossoni e il rumore del motore”.

Contando le tasse doganali e le spese di trasporto in Giappone la UAZ costa quasi 40.000 dollari; è uno dei quei rari casi in cui la forma è più importante del contenuto. “Ovviamente, il maggior pregio della UAZ è l’aspetto esteriore -, fa notare Yuji Iwamoto, direttore della compagnia Iwamoto Motors. - Soprattutto dal davanti la forme è stilosa, per design si avvicina molto alle automobili giapponesi che producevano 40 anni fa”.

Ogni fine settimana Satoru Obara, impiegato di un birrificio, insegna ai figli a giocare a baseball. Per molti anni è stato il suo hobby principale, ma di recente ne ha aggiunto un altro: da due anni è proprietario di una UAZ. “I guasti capitano - ammette Satoru Obara. - Poco tempo fa, per esempio, il finestrino ha smesso di chiudersi. Ma non è una tragedia. La macchina è buona e io le voglio bene”.

I familiari hanno un atteggiamento di comprensione nei confronti del passatempo di Obara. La moglie non si mette al volante perché guidare una macchina così è roba da uomini. Ai bambini i viaggi in quell’auto fuori dal comune piacciono, anche se non se ne comprerebbero una così. La nuova generazione sceglie le Ferrari o mal che vada le Toyota. Il proprietario di un’automobile russa non deve essere soltanto un tipo creativo, ma anche benestante. Per portare a un livello decente la UAZ, per esempio, un compratore giapponese ha dovuto sborsare quasi 30.000 in più.

Masamiti Kise, direttore di un piccolo studio di design di Osaka dice con orgoglio che in Giappone non esiste un’altra macchina simile. In tutto gli è costata 5,5 milioni di yen, circa 70.000 dollari. Per riassettarla ci sono voluti sei mesi. La maggior parte del tempo e delle energie è stata spesa per installare l’impianto di condizionamento e per rifare il vano del motore che nella UAZ si trova tra i sedili anteriori e si scalda moltissimo quando la macchina è in moto. “Ho rifatto da zero anche gli interni -, racconta Masamiti Kise. - Ho sostituito i sedili e li ho rivestiti di una pelle speciale idrorepellente che usano per fare i costumi dei surfisti. Il colore l’ho scelto io. Dopo un giretto in auto amo fare un pisolino, per questo i sedili si possono reclinare. Ne viene fuori un letto vero e proprio”.

La misteriosa vettura russa ha colpito il giapponese sotto molti punti di vista. Per esempio, per il fatto di non avere un singolo bullone avvitato fino in fondo. Ma l’enigma principale è la scritta a lettere rosse nell’abitacolo. Ha chiesto di tradurla in giapponese, ma il segreto non è stato comunque svelato. “Non ci capisco niente, quale anello, quale cavetto devo tirare? Qui non c’è niente!”, rimane perplesso Masamiti Kise. Più tardi ha fatto sapere che non rideva così di gusto da tanti anni. “A quanto pare ho un’uscita di sicurezza”, ridacchia l’automobilista.

In futuro i possessori di automobili russe in Giappone non avranno sicuramente di che annoiarsi. Dal 2013 le limitazioni sulle emissioni delle automobili saranno più severe e senza investimenti aggiuntivi le UAZ non passeranno la revisione. (brano tratto da Vesti.ru)

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