Kiprenskij, dopo i fasti l`oblio

Autoritratto di Orest Kiprenkij (1828, Galleria Tretjakov)

Autoritratto di Orest Kiprenkij (1828, Galleria Tretjakov)

Un ritratto del Van Dyck russo che tanto amò l`Italia e che fu esaltato dal Belpaese, nell`anniversario dei 175 anni della sua morte, trascorso senza celebrazioni

Autoritratto di Orest Kiprenkij (1828, Galleria Tretjakov)

Gli italiani lo chiamavano “il Van Dyck russo”. L’Accademia fiorentina di Belle Arti gli commissionò un autoritratto per la Galleria degli Uffizi. A Roma era amico del segretario di Stato della Santa Sede, cardinal Ercole Consalvi. Per sposare una sua allieva sì convertì al Cattolicesimo. Morì a 49 anni e fu sepolto nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, di fronte al palazzo in cui visse e morì Gianlorenzo Bernini. Oggi però in Italia pochi conoscono Orest Kiprenskij, anche se fu il più rinomato ritrattista russo della prima metà dell’Ottocento.

Così mentre il Belpaese celebra altri russi che soggiornarono o vissero in Italia nel XIX secolo, come lo scrittore Nikolaj Gogol, il pittore Aleksandr Ivanov, il compositore Petr Cajkovskij, il poeta Vjaceslav Ivanov, nessuno ricorda i 175 anni della morte di Kiprenskij.

L`artista, nato nel governatorato di San Pietrogurgo nel 1782, terminò l’Accademia di Belle Arti con Medaglia d’Oro e nel 1816 si trasferì in Italia con una borsa di studio. Prima di arrivare a Roma soggiornò a Milano, Parma, Modena e Genova. “Slanciato, agghindato e persino imbellettato per piacere alle donne”, dalla descrizione dell’amico e scultore Samuil Gal’berg, Kiprenskij affittò uno studio in Via Sant’Isidoro al civico 18 da Giovanni Masucci, lo stesso che 20 anni dopo avrebbe affittato un appartamento a Gogol, sempre in Via Sant’Isidoro. Kiprenskij spianò la strada, dunque, per viaggiatori, borsisti, scrittori e artisti russi che, dopo di lui, avrebbero inondato Roma nel corso dell’Ottocento. Per loro aveva scoperto tutti i locali e i caffè da frequentare, imparando a trattare con i romani e individuando le più belle viste della città.

La sua reputazione in Italia crebbe rapidamente. Nel 1819, in occasione della visita dell’imperatore austriaco Francesco I, capeggiò una mostra dei pittori stranieri a Palazzo Caffarelli, sul colle del Quirinale. Dopo accettò incredulo una commissione per gli Uffizi, un onore che pensava fosse riservato solo ai pittori europei.  Ma la gloria non durò a lungo e alla fine del 1821 accadde una disgrazia: una modella morì arsa viva in un incendio nella sua bottega. La colpa era del suo domestico, ma Kiprenskij si assunse tutta la responsabilità. Depresso e senza ispirazione si trasferì a Firenze, poi a Parigi e da lì in terra natia dove la sua fama aveva raggiunto vette celesti.

Lì, a San Pietroburgo, fra le memorie tormentate dipinse il quadro che contribuì a immortalare il suo nome nella letteratura russa: il ritratto di Aleksandr Puskin. Come ringraziamento il grande poeta dedicò dei versi a Kiprenskij: “Mi vedo come nello specchio/Ma questo specchio mi lusinga…” Il pittore, invece, delle lusinghe non ne aveva bisogno. Aveva bisogno di qualcosa vero, vivace, caloroso: l’Italia.

Nel 1828 tornò a Roma, ma appena arrivato partì per Napoli, dove eseguì il famoso Lettori delle riviste a Napoli. Quattro anni dopo si stabilì definitivamente nella Città Eterna e si consacrò a deificarla con il suo brioso ed elegante pennello. Nel 1836 sposò Anna Maria Falcucci, che aveva salvato da una famiglia dissoluta e affidato al cardinal Consalvi prima di lasciare Roma quattordici anni prima. Qualche mese più tardi si ammalò di polmonite e si spense il 17 ottobre, secondo alcune fonti, il 10 ottobre, stando a quanto scritto sulla sua lapide nella chiesa romana di Sant’Andrea delle Fratte.

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