Tskinvali, 23 luglio 2010. Una ragazzina passa davanti ai restidella torre di un carro armato distrutto durante il conflitto russo-georgiano nell'Ossezia del Sud. Foto di Vostock Photo
Fino al 2008 i conflitti etnico-politici dell’Eurasia non erano mai
stati al centro dell’agenda globale. Negli Stati Uniti, così come in
Europa, venivano definiti “congelati” se non addirittura “dimenticati”.
La guerra di cinque giorni tra Georgia e Ossezia, la prima del genere
dalla caduta dell’Unione Sovietica, ha trasformato improvvisamente l’ex
area sovietica in una regione che desta particolare preoccupazione. Nel
corso dei primi giorni di conflitto la situazione nell’Ossezia del Sud è
stata discussa per ben tre volte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Tale inquietudine nei confronti del Caucaso ha una facile spiegazione.
Fu proprio nel Caucaso, dopo il crollo dell’impero sovietico nel
dicembre 1991, che vennero per la prima volta stabiliti e riconosciuti
internazionalmente i confini delle ex repubbliche sovietiche (quel
processo noto anche come “nazionalismo Belovezhsky”). È nel Caucaso,
quindi, che si è stabilito un precedente relativo alla revisione dei
confini tra repubbliche una volta facenti parte dello stato sovietico.
Il Caucaso è stata la prima regione in Eurasia con stati solo
parzialmente riconosciuti: stati la cui indipendenza è ricusata dall’ONU
e riconosciuta dalla Russia, membro permanente del Consiglio di
Sicurezza. Tali separazioni sono state effettuate de facto
dall’Abkhazia nel settembre 1993, dalla Ossezia del Sud nel giugno 1992,
dal Nagorno-Karabakh nel settembre 1991 e dalla Cecenia nel novembre
1991. Il processo del riconoscimento legale di questi progetti
separatisti potrebbe andare avanti per anni e anni. L’Abkhazia o
l’Ossezia del Sud, così come la Repubblica Turca di Cipro del Nord,
potrebbero non ricevere più riconoscimenti ufficiali per decenni e ciò
nonostante che un precedente mutamento relativo al riconoscimento dei
confini delle ex repubbliche sovietiche sia stato stabilito. Il 26
agosto 2008 la Russia ha riconosciuto l’indipendenza di due ex autonomie
georgiane. La scelta di Mosca è stata poi seguita, con varie sfumature e
riserve, da due nazioni latino-americane (Nicaragua e Venezuela) e dal
minuscolo stato oceanico di Nauru.
Così, il risultato principale dello scontro georgiano-osseto è stato la creazione di un nuovo status quo
nel Grande Caucaso, anche se tale processo non può in ogni caso essere
considerato completato. Quali sono le caratteristiche di questo nuovo
ordine? Innanzitutto, nel periodo 2008-2010, l’agenda politica per
l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud ha visto la realizzazione di cambiamenti
significativi, compresa una serie di redistribuzione delle priorità tra
questioni di politica interna ed estera. Per questi stati parzialmente
riconosciuti la priorità assoluta non è più la lotta per l’indipendenza
ma la qualità di tale indipendenza. Invece del fattore georgiano ora è
quello russo a giocare un ruolo determinante. Per l’Abkhazia, ad
esempio, ha assunto oggi una nuova importanza il problema della presenza
russa nell’area per l’ambito economico e politico-militare. Tale
questione definisce la linea di separazione tra le autorità
dell’Abkhazia e l’opposizione. Per l’Ossezia del Sud invece il problema
principale è l’organizzazione del controllo sulla distribuzione degli
aiuti finanziari provenienti dalla Russia per ricostruire la repubblica.
Inoltre il mese di agosto 2008 ha privato la Russia di una certa
influenza sulla Georgia, ora più vicina agli Stati Uniti di quanto non
fosse prima della guerra. L’avvento di una nuova amministrazione in
America non ha facilitato le cose nell’area, come è stato chiaramente
dimostrato dalla visita
del Segretario di Stato Hillary Clinton lo scorso luglio a Tbilisi,
durante la quale la Clinton ha descritto la strategia russa come
“un’occupazione di terre georgiane.” Tuttavia tutto ciò ha finito per
rinforzare il nuovo status quo. Gli Stati Uniti e la NATO non
hanno risorse per annientare la Russia, e la Russia non ha la
possibilità di penetrare più a fondo in Georgia.
Al di là delle relazioni russo-georgiane, il nuovo status quo
interessa altri paesi dell’area, in primo luogo Armenia e Azerbaijan.
L’agosto 2008 ha dimostrato che una dipendenza unilaterale dalle
dinamiche relazioni russo-georgiana non può definire la prospettiva di
Yerevan in politica estera. Il risultato è che ora c’è un maggiore
interesse a normalizzare le relazioni tra armeni e turchi di quanto non
ce ne sia stato dal 1993 sino ad oggi. Il dialogo armeno-turco è ormai
divenuto un fattore determinante nella regolarizzazione della situazione
del Nagorno-Karabakh. Una maggioranza assoluta di sostenitori della
normalizzazione tra armeni e turchi insiste sulla necessità di tenere
separato il processo di pace nel Nagorno-Karabakh dalla riconciliazione
tra Yerevan e Ankara. In realtà, questi due processi sono già legati tra
loro ed il risultato è che invece di godere finalmente di tanto attesi
progressi, si osserva una decelerazione in entrambe le aree. Ciò è
avvenuto perché l’automatica unione di problemi in due aree contese ha
determinato la formazione di nuove sfide prima non considerate
sostanziali. L’aumento della retorica militarista da parte di Baku, ad
esempio, ha fatto sì che l’Azerbaijan facesse pressioni sulla Turchia
perché non arrivasse a compromessi con Yerevan. Perfino l’Iran sta
cercando di prendere parte alla definizione di un nuovo status quo nel
Caucaso. Teheran è estremamente sensibile alla comparsa di nuovi
soggetti nella regione ed è per questo che punta ad influenzare la
risoluzione della disputa del Nagorno-Karabakh. Nell’aprile 2010, il
ministro degli esteri iraniano Manouchehr Mottaki ha annunciato che
Teheran aveva delineato una serie di proposte che potevano essere viste
come un’alternativa ai “rinnovati principi di Madrid” (firmati dai
presidenti di Stati Uniti, Russia e Francia). L’Iran non vede di buon
occhio una risoluzione del conflitto nel Karabakh che coinvolga lo
stanziamento nella regione di forze internazionali di pace
(indipendentemente dalla loro provenienza).
Lo scontro russo-georgiano dell’agosto 2008 ha nuovamente confermato e
aumentato il ruolo politico delle repubbliche nel Caucaso russo del
nord. Nel corso di quel conflitto, il battaglione Vostok, un’unità
regolare dell’esercito russo composta di soldati di etnia cecena, ha
preso parte alle operazioni contro le forze georgiane in Ossezia del
Sud. All’epoca, inoltre, rappresentanti di movimenti etnico-nazionalisti
in Kabardino-Balkaria, Karachaevo-Circassia e Adygea erano pronti a
inviare i proprio volontari nella regione. È normale, quindi, che la
gente abbia ripensato alla guerra tra Georgia e Abkhazia del 1992-1993,
in cui la vittoria dell’Abkhazia fu resa possibile in larga parte dalle
truppe della Confederazione dei Popoli delle Montagne del Caucaso del
Nord. In quell’occasione non ci fu una partecipazione incontrollata di
volontari. Ciò nonostante, dopo il 2008 c’è stato una decisiva crescita
del movimento nazionale circasso nel Caucaso russo del Nord. Gli abkhazi
considerano i circassi russi come fratelli. I congressi speciali del
popolo circasso nel 2008 e nel 2010 avevano all’ordine del giorno la
richiesta di una repubblica separata circassa all’interno della
Federazione Russa.
Oltre a questi significativi cambiamenti nel Caucaso, gli eventi
dell’agosto 2008 e le loro conseguenze si estendono ben al di là dei
confini dell’area. Ciò che è successo ha dimostrato l’ovvia
impossibilità di arbitrati internazionali efficaci e, cosa più
importante, legittimi. Piuttosto che mediare tra parti in conflitto, i
paesi leader mondiali hanno preso posizione. Gli Stati Uniti e i loro
alleati hanno sostenuto l’“integrità territoriale della Georgia”
chiudendo un occhio sui metodi brutali utilizzati per affrontare la
questione. La Russia, invece ha mercanteggiato unilateralmente il suo
ruolo di peacekeeper con quello di patrocinatore militar-politico di due
ex autonomie georgiane. Allo stesso tempo, i “principali attori” non
facevano riferimento al sistema legale internazionale quanto piuttosto
al principio dell’unilateralismo. Purtroppo dal 2008questo trend si è
solamente rafforzato. Per esempio la recente decisione della Corte
Internazionale di Giustizia a proposito del Kosovo ha mostrato che una
cosa è la realtà politica e un’altra sono le questioni formalmente
legali. I giudici hanno preso le loro decisioni non sulla base di tutte
le circostanze legali e politiche messe insieme, ma su una singola
dichiarazione presa dal Parlamento kosovaro il 17 febbraio 2008. Gli
eventi degli ultimi due anni sono un’ulteriore conferma del fatto che la
versione Yalta - Potsdam delle relazioni internazionali non funziona,
mentre un nuovo modello, post-Yalta, deve ancora prendere forma. Fino a
che ciò non avverrà, ci sono poche speranze di una partecipazione
effettiva e attiva nella risoluzione delle dispute come quelle nel
Caucaso. Per espandere il ruolo degli interlocutori internazionali nella
risoluzione delle ostilità, è essenziale che vengano elaborati i
criteri generali e le regole del gioco per guidarli, piuttosto che
permettere loro di confidare esclusivamente sulla proprie idee di cosa
sia e non sia permissibile.
Sergei Markedonov è Visiting Fellow presso il Centro di Studi
Strategici e Internazionali (CSIS), Programma Russia e Eurasia
(Washington, DC)
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