Il mal d’Italia di poeti e romanzieri russi

Il Belpaese meta eletta dei letterati dell’Imperoper tutto l’ottocento e parte del novecento.Figura di Elena Shagieva/Cargocollective.com

Il Belpaese meta eletta dei letterati dell’Imperoper tutto l’ottocento e parte del novecento.Figura di Elena Shagieva/Cargocollective.com

Per tutto l’Ottocento e parte del Novecento l’Italia diventò la «patria dell’anima» di scrittori e poeti russi. Dei loro viaggi fugaci, come quelli di Cechov che si recò «nel paese delle meraviglie» per tre volte e sempre facendo tappa nella «città bella» di Venezia, o dei lunghi soggiorni di Gorkij a Capri e Sorrento o di Gogol a Roma restano tuttora molte tracce. In Piazza Pitti a Firenze ci si può perciò imbattere nell’abitazione dove Dostoevskij scrisse l’ Idiota , mentre a Venezia si possono ripercorrere i passi del poeta Brodskij che al capoluogo veneto dedicò il saggio Fondamenta degli Incurabili.

Voglia d’Italia e mal d’Italia, desiderio e nostalgia. Che fosse smania di andare o struggente brama di ritornare, l’Italia diventò oggetto di sentimenti ardenti che pervasero anime e pagine degli scrittori russi. Poeti e romanzieri, realisti e romantici furono uniti da questo fil rouge che attraversò tutto l’Ottocento e in parte i primi anni del secolo successivo.

Quella Russia che in Italia vedevano ancora come chiusa, aveva iniziato ad aprirsi all’Europa con Pietro Il Grande che, con un editto del 1696, aveva invitato i figli delle famiglie agiate del suo impero a recarsi in Occidente per i propri studi. E la penisola italiana divenne presto meta privilegiata: di viaggi fugaci - come quelli di Anton Cechov che si recò «nel paese delle meraviglie» per tre volte e sempre facendo tappa nella «città bella» di Venezia - e di lunghi soggiorni, come per il socialista Maksim Gorkij o per il realista Nikolaj Gogol, secondo cui «tutta l’Europa è fatta per essere visitata, ma l’Italia è fatta per viverci!» e «chi vi è stato può dire addio agli altri Paesi» perché «chi è stato in cielo non avrà mai voglia di tornare sulla terra».

Fu meta prediletta soprattutto per via del clima e della cultura. In fuga dai loro ostici inverni, in Italia gli scrittori russi andavano a rifugiarsi sotto «la volta del cielo tutta azzurra» che giovava alla loro salute, che alcuni avevano funestata da tubercolosi o altri malanni. E, come il sole, anche la storia e l’arte erano ovunque. Antichità «a ogni piè sospinto», piazze «tutte ricoperte da rovine», pinacoteche «dove ci sarebbe da vedere per un anno intero», strade con una «scuola di pittori e scultori quasi a ogni porta» e tante chiese come «in nessuna altra città al mondo».

Purtroppo, un fascino altrettanto intenso non provocava in Italia la Russia, vista come geograficamente e politicamente distante. Baluardo della Santa Alleanza, l’impero dello zar era considerato emblema della Reazione e in Italia si covava la convinzione che in un ambiente di arretratezza politica non potesse che esserci grettezza culturale. Pertanto, nemmeno la straordinaria produzione letteraria russa dell’epoca destava granché interesse.

Sebbene la letteratura russa stesse vivendo il suo momento storico più rilevante, nelle riviste letterarie e culturali della prima metà dell’Ottocento se ne trovavano solo sporadici riferimenti. A quest’indifferenza e ignoranza facevano eccezione le oasi di curiosità coltivate da alcuni salotti letterari, come quello della famiglia Demidov di Firenze e della principessa Volkonskaja. Solo nella seconda metà del secolo cominciarono a circolare opere di Dostoevskij e Tolstoj ma per mediazione di Parigi a riprova del provincialismo intellettuale dell’epoca.

La contrapposizione tra la negligenza dell’intelligencia italiana verso la cultura russa e la familiarità di scrittori d’epoca zarista con la cultura italiana provocò surreali cortocircuiti. Ad esempio, fu nel Belpaese che Gogol produsse la prima parte di Le anime morte e fu all’opera dantesca che s’ispirò progettando di inserire il poema in una trilogia. Eppure l’Italia si fece passare davanti agli occhi la nascita di quel capolavoro.



 
Piazza Pitti, qui Dostoevskij terminò l’Idiota

A Firenze si possono ripercorrere le passeggiate dello scrittore che qui ebbe la figlia Lubjov e concluse il suo romanzo più famoso.

La Piazza dove lo scrittore trovò casa nel 1868. Foto dal sito www.wikipedia.org


Civico 22, Piazza Pitti, Firenze: dietro la stringata solennità di una targa commemorativa si cela uno dei soggiorni italiani più fecondi per uno scrittore russo. È qui che nacque il frutto dell’amore tra Fëdor Dostoevskij e sua moglie Anna, una bambina che chiamarono appunto Lubjov (“amore” in russo). Soprattutto, è qui che l’autore di Delitto e Castigo concluse quel progetto che lo «tormentava da tempo, perché un’idea difficile», quella di «raffigurare un uomo assolutamente buono»: quel Gesù moderno che avrebbe reso L’idiota uno dei romanzi più famosi della letteratura russa.

È il 1868. Epoca di Firenze capitale. A Palazzo Pitti abita il re dell’Italia unita. E, dopo aver lasciato Mosca per l’Europa sfuggendo ai creditori, Dostoevskij trova casa proprio sulla spettacolare piazza in cui s’affaccia il Palazzo reale. «Il cambiamento ebbe di nuovo un effetto benefico su mio marito e noi cominciammo ad andare insieme per chiese, musei e palazzi», annotò sua moglie tra i ricordi del loro anno fiorentino. Un periodo felice, cadenzato da quotidiane passeggiate ai Giardini di Boboli, ma anche da pressanti scadenze con il Russkij Vestnik (Il messaggero russo) su cui pubblicava a puntate il romanzo.

Con il rientro a Pietroburgo, l’Italia non scompare. Dagli articoli che Dostoevskij pubblica sulla rivista d’attualità Grazdanin (Il cittadino) traspare un sentimento di nostalgia per un’Italia che non vide mai: quella dei «duemila anni» in cui gli italiani avevano «portato in sé un’idea universale…reale», l’«unione di tutto il mondo». Un’idea assente nella «creazione del conte di Cavour», che non è altro che «un piccolo regno di second’ordine che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale», «un’unità meccanica e non spirituale».


 

Brani del romanzo "L'idiota"

Figure di Ilia Glazunov. Voce di Stefania Zini


Viaggio a Roma “patria dell’anima” di Nikolaj Gogol

Lo scrittore si trasferì nella capitale italiana tra il 1837 e il 1841 e vi trovò ispirazione: qui scrisse “Il Cappotto” e il primo volume di “Le anime morte”.

Ritratto di Gogol (F.A. Moller, anni ’40 del XIX sec).



Ogni mondo rivela spesso deludenti chiaroscuri che la propria immaginazione non aveva prefigurato, ma non fu così per l’Italia di Nikolaj Gogol. Se ne era innamorato ancora prima di averla vista, tanto da dedicarle uno dei suoi primi scritti e l’unico componimento in versi: «Italia, magnificente paese! Per te l’anima geme, e si strugge: tu sei paradiso, tu piena letizia…Giardino dove tra il vapor dei sogni vivono Torquato e Raffaello ancora! Ti vedrò io, trepido d’attesa?». E quando finalmente la vide non ebbe disillusioni. Anzi: ne parlò come la «patria della mia anima», il luogo dove essa «viveva prima ancora che (venisse) alla luce».

Amareggiato per il magro successo che la messa in scena della commedia L’ispettore generale aveva riscosso a Pietroburgo, nel 1837 Gogol si era trasferito in Italia, dopo essere passato per Germania, Svizzera e Francia, anche per via della sua cagionevole salute. A Roma - «dove l’uomo è più vicino al cielo di una versta intera» e l’aria «fa venire voglia di trasformarsi in un gigantesco naso, con narici grosse come secchi» per «farci entrare almeno settecento angeli» - visse fino al 1841, in via Santo Isidoro 17, frequentando scrittori russi e italiani, come Gioacchino Belli.

Dell’Italia amò sia la ricchezza storica che artistica - «tutto ciò che leggete nei libri, lo vedete qui davanti a voi» -, la sua natura e il suo popolo, dotato «in gran misura di senso estetico». Qui lo scrittore d’origine ucraina fu felice e il Belpaese diventò un pozzo d’ispirazione: vi che compose il primo volume del poema Le anime morte , Il ritratto e Il cappotto , la summa della sua irriverente comicità. Ed è qui che abbozzò quell’idea della purificazione dall’anima che in seguito influenzò buona parte della letteratura russa.


Brani del romanzo "Le anime morte"

Figure di N.Bazhin, M.Dalkevich, A.Aguin, E.Bernadskij, V.Makovskij, S.Solomko, A.Laptev, V.Andreiev, P.Boklevskij. Voce di Stefania Zini


L’esule Gorkij che trasformò Capri in un’isola socialista

Scrittori e menti raffinate del socialismo s’incontravano quotidianamente nella sua villa per discettare di rivoluzione e letteratura.

Sarebbe dovuto rimanere due mesi: vi restò sette anni. Perché come tutti ne subì il fascino, ma anche perché l’Italia fu per Maksim Gorkij rifugio dalle intemperanze politiche. Terra d’esilio, anzi di un doppio esilio: dal governo zarista prima, dai soviet poi. E la sua condizione di dissidente non fece che accrescere l’aura di rispetto di cui godeva presso gli italiani, sia come scrittore che come simbolo della lotta dell’intelligencia contro il regime assolutista. Tanto che quando sbarcò a Napoli, il 27 ottobre 1906, tale fu il clamore per il suo arrivo e l’assedio di giornalisti e ammiratori, che lo scrittore scappò a Capri.

Con la sua permanenza, sull’isola si creò una sorta di colonia russa. Scrittori e menti raffinate del socialismo s’incontravano quotidianamente nella villa di Gorkij per discettare di rivoluzione e letteratura. Un fermento che per ben due volte spinse un preoccupato Lenin a recarsi nel Golfo di Napoli per incontrare il drammaturgo impegnato.

Oltre che con politica e lavoro (la stesura, tra le altre opere, de La madre ), il padre del realismo socialista occupava il suo tempo a Capri con un gaudente riposo. Amava sostare in una trattoria per gustare vino locale o commuoversi di fronte agli isolani che ballavano la tarantella. La nostalgia per la Russia però non tardò ad affiorare e quando nel 1913 lo zar decretò un’amnistia, Gorkij vi fece ritorno. Rivide l’Italia nel 1921: in fuga ora dalle persecuzioni leniniste e in cerca di un clima più favorevole per la sua tubercolosi, si stabilì a Sorrento. E quando nel 1931 rimise definitivamente piede in terra russa fu alla terra del suo esilio che rivolse gli ultimi pensieri: «In Unione Sovietica - ricordò di Gorkij il medico ingiustamente condannato per averlo ucciso - non aveva più aria per respirare, aspirava appassionatamente a tornare in Italia».

Brani del romanzo "La madre"

Figure del gruppo artistico Kukriniks. Voce di Stefania Zini

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