Medvedev: “A vincere la guerra fu il nostro popolo e non Stalin”

Dmitri Medvedev. Foto dal sito www.kremlin.ru

Dmitri Medvedev. Foto dal sito www.kremlin.ru

V. ABRAMOV: Presidente Dmitri Medvedev, Lei ha più volte dichiarato che non esiste nel nostro Paese famiglia che non sia stata ferita dalla guerra. Quali ferite ha lasciato la Grande guerra patriottica nella Sua?

D. MEDVEDEV: I miei due nonni hanno combattutto entrambi ed entrambi hanno avuto varie vicissitudini durante la guerra. Da bambino quando andavo a trovare nonno Afanasii, a Krasnodar’, mi parlava sempre della guerra. I suoi racconti mi facevano un’enorme impressione. Quando parlava si emozionava e aveva le lacrime agli occhi. Raccontava episodi su cui allora non si scriveva molto. Aveva combattuto su vari fronti, aveva riportato gravi ferite ed era stato insignito di molte onorificenze e medaglie.

Anche nonno Veniamin mi raccontava spesso della guerra e delle emozioni provate in guerra. Non ho mai scordato di quando mi raccontava quanto è difficile sparare a un uomo e quanto è angoscioso e difficile prendere decisioni come quella, anche quando sai che devi difendere il tuo Paese e i tuoi cari dagli invasori che hanno occupato il tuo territorio, ucciso la tua gente e incendiano le tue città e i tuoi villaggi. Erano questioni estremamente intime, delicate su cui allora, data la mia giovane età, non mi soffermavo più di tanto. È solo maturando che cominci a comprendere che cosa significhi trovarsi faccia a faccia con un nemico.

I miei genitori erano stati costretti a sfollare; mia madre, che era piccolissima quand’è cominciata la guerra, era riparata in Tagikistan insieme a mia nonna, mentre i miei due nonni erano impegnati al fronte. Questi ricordi hanno fatto sì che le celebrazioni del 9 maggio siano sempre state una ricorrenza molto sentita dalla nostra famiglia. Mi rammento, per esempio, che nel ’75 avevo dieci anni e si celebrava il trentennale della fine della Grande guerra patriottica. I veterani erano felici di esibire tutte le loro onorificenze e medaglie. C’era la musica, si abbracciavano ed erano in tanti. Dovunque si andasse, al monumento per la Vittoria, o al cimitero Piskariovskoe, i reduci erano numerosissimi e c’era un’atmosfera festosa che non ho più mai dimenticato.



Lei è nato vent’anni dopo la Vittoria. Questo significa che la guerra per Lei non è che un episodio storico e non parte della sua biografia. Col passare degli anni è cambiata la Sua visione della Grande guerra patriottica?

La guerra, certo, è parte integrante della nostra storia, ma si tratta di una pagina di storia ancora recente, vorrei sottolinearlo. Numerosi reduci vivono ancora e sono testimoni viventi di ciò che è accaduto.

Perciò la mia visione degli avvenimenti di quel periodo non è cambiata radicalmente. Certo, molti documenti sono venuti alla luce solo alla fine degli Anni ’80 quando si è cominciato a pubblicare i materiali degli archivi e si è avuto accesso alle fonti prima segretate. Per un arco di tempo piuttosto lungo la guerra è stata interpretata solo come la lotta vittoriosa del popolo sovietico e dell’Armata Rossa. Ma la guerra ha significato anche un immenso numero di vittime e d’indicibili disagi subiti dal popolo sovietico e dagli altri popoli europei. Forse, in quest’ambito, alcune sfumature di valutazione sono cambiate.

Di recente Lei ha annunciato di voler combattere contro la falsificazione della storia istituendo una commissione speciale. Quali sono i fatti che La hanno spinta a tale passo? E, a Suo avviso, è possibile una scrittura oggettiva della storia, libera da interpretazioni politiche ed emotive?

A spingermi è stato lo scandaloso comportamento di alcuni politici, che per i loro piccoli, direi, meschini obiettivi personali, hanno cominciato a usare diverse interpretazioni pseudoscientifiche di quei fatti per ottenere consensi. Ma il punto non è tanto quella di dare delle risposte concrete alla gente perché in fondo, come si dice, solo Dio può giudicare. Il punto è il nostro futuro. Quale memoria lasceremo? Che cosa penseranno i nostri figli e i nostri nipoti? Che cosa sapranno della guerra e quali lezioni potranno trarre da questa guerra?

Qual è la verità? Il nostro popolo non aveva scelta. Chi viveva in quell’epoca nel nostro paese poteva solo morire o diventare schiavo. Non esisteva una terza opportunità.

Dobbiamo far conoscere la verità e ciò non significa combattere contro diverse interpretazioni degli eventi di guerra o contro diverse teorie scientifiche. Vengano pure promosse e diffuse, ma vi sono fatti che non hanno bisogno di essere dimostrati, per la loro evidenza o in virtù del fatto che sono sanciti da documenti internazionali, come, per esempio, gli atti del processo di Norimberga. Ebbene, su questi argomenti non si può discutere poiché le discussioni condurrebbero solo su un terreno molto negativo. Ma se a un certo momento si concluderà che il lavoro è compiuto, la commissione avrà esaurito la sua funzione.

I fatti accaduti nelle Repubbliche baltiche, in Ucraina e in Georgia sono un esempio di come la storia della Seconda guerra mondiale possa essere manipolata in nome degli interessi politici. Tuttavia, la questione è un’altra. Cosa possiamo fare perché i caduti nella lotta contro il nazifascismo vengano ricordati dovunque con riconoscenza?

Certo ogni paese ha la sua storia. E non ha senso affermare che gli eventi del dopoguerra hanno portato il benessere in tutti i paesi liberati. Questo è un discorso un po’ tendenzioso. Dobbiamo capire se, qualora l’Unione Sovietica non avesse liberato l’Europa, insieme agli altri paesi della coalizione antihitleriana, l’Europa sarebbe stata ciò che è adesso. È assai probabile che sarebbe diventata un immenso campo di concentramento retto da un unico Stato. La maggior parte dei cittadini dell’Europa attuale non sarebbero semplicemente venuti al mondo. Ma, d’altro canto, i fatti accaduti nel dopoguerra, sono un’altra pagina di storia, affatto diversa ed estremamente ideologizzata. È evidente che l’Unione Sovietica in quanto Stato doveva perseguire i suoi obiettivi e l’Unione Sovietica era uno Stato molto complesso. A dirla francamente, il regime che si è formato allora in Unione Sovietica non si può definire altrimenti se non come regime totalitario. Purtroppo, era un regime in cui venivano soffocati i diritti e le libertà fondamentali. E non solo rispetto ai suoi cittadini (una parte dei quali dopo la guerra, da vincitori, finirono nei lager). Così era anche negli altri paesi del Blocco socialista orientale. E questa realtà non può essere cancellata dalla storia.

Lei ha ricordato alcuni Stati in cui è in atto un processo di eroicizzazione dei criminali nazisti. Ciò è molto triste. Nessuno vuole certo idealizzare il ruolo dell’Unione Sovietica nel dopoguerra, ma in nessun caso dei carnefici possono essere definiti vittime. Chi mette sullo stesso piano il ruolo dell’Armata Rossa e il ruolo degli invasori nazifascisti commette un crimine morale.

Nella società occidentale si sta accreditanddo l’opinione secondo cui il merito della vittoria sulla Germania nazista spetterebbe alle truppe alleate. Che Berlino sia stata presa dall’Armata Rossa e che l’Unione Sovietica abbia subito perdite catastrofiche è una questione che sembrerebbe interessare quasi solo gli storici e i politici. Veniamo gradualmente espropriati della nostra vittoria…

La verità sta nel fatto che quasi i tre quarti delle perdite subite dai contingenti hitleriani furono inferte in territorio orientale dall’Unione Sovietica. E circa il settanta per cento delle perdite in risorse materiali e tecnologie belliche furono inferte dai nostri soldati.

Stalin era il capo di uno Stato che ha sconfitto il nazismo, ma basta questo per trasformare un tiranno, responsabile di crimini contro il suo stesso popolo, in un eroe? Hitler ha liberato la Germania dalla disoccupazione e ha costruito le sue autostrade, eppure non c’è nessuna autostrada intitolata a Hitler. E non si appendono manifesti coi suoi ritratti nei giorni delle celebrazioni.

Esistono dei fatti assolutamente incontrovertibili: a vincere la Grande guerra patriottica fu il popolo, e non Stalin, e neppure le gerarchie militari, nonostante la responsabilità del loro grado. Sì, il loro ruolo fu senza dubbio importante, ma ciò nonostante a vincere la guerra, a prezzo di incommensurabili sacrifici e della perdita di un immenso numero di vite umane, fu la nostra gente.

Quanto al giudizio del nostro governo su Stalin e all’opinione che si è venuta formando negli ultimi anni su di lui nella leadership del Paese, con l’avvento del nuovo Stato russo, esso è evidente: Stalin è responsabile di un’immensa quantità di crimini contro il suo popolo e malgrado l’enorme lavoro da lui svolto, malgrado i progressi conseguiti dal Paese sotto la sua guida, i crimini da lui commessi contro il suo stesso popolo non possono essere perdonati.

Coloro che amano Stalin, come coloro che lo odiano, hanno diritto a esprimere la propria opinione. E non sorprende che i veterani e gli appartenenti alla generazione dei vincitori nutrano ammirazione per Stalin. Ritengo che ne abbiano il diritto. La questione è un’altra: queste valutazioni personali non devono condizionare i giudizi del governo.

Non si deve però dire che lo stalinismo sta tornando nella nostra vita quotidiana o che si stanno riesumando i suoi simboli attraverso i manifesti e altro ancora. Ciò non accade, né accadrà mai. È categoricamente escluso. È questa l’attuale ideologia del nostro governo e, se volete, anche il mio pensiero di Presidente della Federazione Russa.

La coalizione antihitleriana sembra aver unito nazioni che, per il loro assetto e la loro struttura, non si sarebbero mai potute aggregare. La politica dei blocchi è proseguita anche in seguito. Le nazioni hanno continuato ad aggregarsi in blocchi militari, come se vedessero in essi l’unica garanzia per la propria sicurezza. La Russia ora fa parte solo dell’Odkb (Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva), la cui potenza militare non è minimamente confrontabile con quella della Nato. Riuscirà la Russia a entrare in un’alleanza militare? E ha davvero bisogno di questo?

A mio avviso, la fine della “guerra fredda” e della filosofia dei blocchi ha consentito l’unione dell’Europa, favorendo la creazione di un’Europa in cui è gradevole vivere e interessante viaggiare. Mi riferisco all’Europa Occidentale, ma anche a quella Orientale e alla Federazione Russa. Il sistema dei blocchi non può portare a nessun sviluppo positivo, sebbene sia diffusa l’opinione che i blocchi siano una garanzia di stabiltà e di equilibrio. Ecco, si dice, c’erano il Patto di Varsavia e la Nato, e ciò garantiva l’equilibrio, ma non appena uno dei blocchi si è dissolto sono cominciati i conflitti e i riassetti. Si tratta di una visione unilaterale, sebbene la presenza di contrappesi nel mondo sia indubbiamente necessaria. Il problema è stabilire che cosa si debba intendere per contrappesi. Se i contrappesi debbano fondarsi solo sulle armi e sugli arsenali strategici. A mio avviso, non dev’essere così.

E proprio perché oggi si parla di un mondo multipolare, mentre se non fosse così, si dovrebbe concludere che solo la strategia dei blocchi consente di garantire la pace e la prosperità sul nostro pianeta. Ma non è vero. I fatti accaduti negli anni ’90 in Europa, nel vicino Oriente, nel Caucaso e in altre parti del mondo, dimostrano che, purtroppo, nessun blocco è in grado di concretizzare tali obiettivi, né di garantire un livello adeguato di sicurezza. Esiste perciò la necessità di pensare ad altre entità che possano risultare efficaci, al di fuori dei blocchi.

Ma abbiamo anche dei doveri di partnership: alll’Odkb aderiscono Stati molto vicini a noi. Non si tratta di un blocco militare nell’accezione tradizionale del termine, ma di un’organizzazione che ha il compito di garantire la sicurezza degli Stati che formano la coalizione. Ricordo che, in base allo statuto del Trattato e dell’Organizzazione a esso collegata, l’aggressione contro un Paese membro è considerata un’aggressione contro tutti come avviene nella Nato. Ma ciò non implica che si debba tornare alla filosofia dei blocchi e cercare, per esempio, di far scaturire dall’Odkb un nuovo Patto di Varsavia, né di espandere i suoi arsenali strategici e il suo potenziale in una competizione senza fine con l’Alleanza Nordatlantica. Sappiamo quali effetti ha già avuto questa gara sull’Unione Sovietica. E sappiamo quanto la corsa agli armamenti abbia sfibrato il nostro paese e a quali esiti abbia portato: a un’economia inefficiente, a un’infinita corsa agli armamenti e alla dissoluzione dello Stato.

Malgrado ciò, naturalmente, siamo tenuti a difendere il nostro potenziale strategico. Il mondo è complesso, una moltitudine di Paesi aspira a impossessarsi di armi nucleari, alcuni sperimentano nuovi dispositivi. In considerazione di ciò non possiamo dimenticarci della nostra sicurezza. Il nostro potenziale nucleare strategico è uno strumento estremamente efficace di tutela dei nostri interessi nazionali. Non dobbiamo enfatizzare il suo valore, ma non dobbiamo neppure sminuire le sue possibilità, né i suoi effetti sul rapporto di forze in campo mondiale. Dobbiamo perfezionare il nostro sistema di difesa e al tempo stesso trovare un’intesa con i nostri partner; cosa che peraltro abbiamo parzialmente realizzato di recente, sottoscrivendo con gli americani il nuovo accordo sulla riduzione e limitazione delle armi strategiche offensive. Il compromesso raggiunto consente a noi russi di tutelare i nostri interessi e agli americani di preservare i loro, senza alimentare tensioni. A mio modo di vedere questa è la via più giusta.

Perché in America e in altri Stati permane un atteggiamento di sfiducia nei confronti della Russia? Esiste la possibilità di attenuare questa sfiducia?

Se analizziamo la situazione attuale, ci accorgiamo di quanto certi stereotipi del passato stentino a scomparire. E ciò è particolarmente vero rispetto al mondo occidentale. A dirla francamente, dalla fine degli anni ’80 all’inizio dei ’90, molti nostri connazionali che aspiravano a una nuova vita avevano idealizzato in senso romantico il nostro rapporto con l’Occidente. Ci sembrava che l’Occidente fosse lì ad aspettarci. Ci consideravamo così aperti, moderni, da non costituire più una minaccia per chicchessia. Credevamo di poter confluire velocemente e quasi naturalmente nella schiera dei Paesi evoluti e civilizzati.

Le cose sono andate in modo un po’ diverso. In primo luogo, non eravamo pronti a compiere questo passo, un po’ per la nostra inerzia di pensiero e poi perché nel nostro Paese c’era e c’è bisogno di creare un moderno sistema economico ed è in corso un processo di maturazione delle istituzioni della nostra società civile. E poi non tutti in Occidente sembravano disposti ad abbandonare i loro cliché e i loro pregiudizi.

C’è da rimanere allibiti quando si assiste al dibattito nei Parlamenti e nelle istituzioni pubbliche degli altri paesi. Certi sciocchi cliché da “guerra fredda”, che un tempo giustificavano le restrizioni nei confronti dell’Unione Sovietica, resistono tuttora e investono anche certe rappresentazioni della nostra società e persino del nostro tenore di vita.

Sono convinto che non sia voluto e che l’intenzione non sia quella di mettere i popoli gli uni contro gli altri, ma si tratta di stereotipi e di pregiudizi che ostacolano la comprensione reciproca e in definitiva avvelenano l’atmosfera del nostro pianeta. Questo discorso non riguarda solo la Russia. Gli stessi pregiudizi sopravvivono anche nei confronti di altri importanti nostri vicini che attraversano una fase di grande sviluppo. Ritengo che ci si debba liberare da tali stereotipi. Anche da noi. Non è mia intenzione scagliare pietre contro gli americani o gli europei, anche noi russi abbiamo i nostri difetti, ma ho l’impressione che sotto questo punto di vista noi abbiamo compiuto molti più passi in avanti.

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